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ViDioGames. Religione e videogiochi

Anche religione, fede e incredulità sono temi presenti in videogiochi di grande successo. E forse si tratta per tanti giovanissimi della prima occasione per riflettere su tali questioni. Mosè Viero ci accompagna in una carrellata videoludica sul numero 2/23 di Nessun Dogma

 

È quasi un luogo comune lamentare la scarsa attenzione della politica, e di riflesso dei media, verso il “paese reale”: ebbene, le modalità con cui i partiti e l’informazione di massa trattano i videogiochi è la prova di quanto i luoghi comuni partano spesso da un fondo di verità.

Nel 2020 il fatturato dell’industria videoludica ha abbondantemente superato quello dell’industria cinematografica e musicale: ma queste ultime hanno acquisito ormai da tempo lo status di prodotto culturale, mentre il videogioco è ancora visto da gran parte del mondo adulto, ovvero da coloro che in questo caso i giovani chiamerebbero scherzosamente i boomer, come un passatempo sciocco, vacuo e alienante, del tutto privo di spessore dal punto di vista dei contenuti e dei messaggi.

Nel 2018 Carlo Calenda arrivò ad affermare che i videogiochi «causano incapacità di leggere e ragionare»: una presa di posizione, poi parzialmente corretta, che ricordava gli anatemi lanciati negli anni cinquanta contro la musica rock, accusata di corrompere le nuove generazioni.

In realtà i prodotti di intrattenimento digitale interattivo sono mezzi di comunicazione come tutti gli altri, che possono essere “usati” bene o male. Ed è già da più di vent’anni che autori visionari utilizzano la loro caratteristica eminente, ovvero l’interattività, per lanciare messaggi complessi con un livello di coinvolgimento del fruitore sconosciuto all’intrattenimento passivo.

Anche la religione, la fede, la credulità e l’incredulità sono argomenti protagonisti o comprimari di videogiochi di grande successo: e probabilmente si tratta per tanti giovani della prima occasione per riflettere su questi grandi temi.

Giochi di ruolo e d’avventura: la religione e l’incredulità “vissuti” dal protagonista

Nei videogiochi di ruolo e d’avventura il fruitore si mette nei panni di un personaggio, realmente esistito o più spesso di fantasia, e vive una storia per il tramite del suo sguardo. Molti giochi di ruolo, spesso ispirati alla controparte cartacea, sono ambientati in mondi fantasy medievaleggianti: è, questa, l’estrema propaggine della “medioevomania” diffusasi in epoca romantica e codificata da capolavori come Il Signore degli Anelli.

Una caratteristica interessante di questi mondi è l’accompagnarsi dell’ambientazione a base di castelli, signori e cavalieri a sistemi religiosi politeistici, in aperto contrasto con il Medioevo storico.

Nei Forgotten Realms in cui è ambientata la celebre serie di giochi di ruolo Baldur’s Gate della casa di sviluppo canadese Bioware (il primo capitolo è del 1998) le città sono popolate da templi dedicati ciascuno a una divinità diversa: Waukeen è la dea del commercio e della ricchezza, Lathander è il dio del sole e della nascita, Helm è il dio dei guardiani e della forza, e così via.

Le divinità sembrano esistere davvero perché “donano” incantesimi ai chierici che li venerano: ma intervengono molto raramente nelle vicende terrene e gli scontri tra “chiese” appaiono come faccende squisitamente terrene.

Nell’ambientazione della serie di giochi di ruolo a esplorazione libera The Elder Scrolls della statunitense Bethesda, il cui ultimo capitolo è il celeberrimo Skyrim (2011), la faccenda è più complessa.

Esiste una religione codificata politeista, il culto dei Nove, i cui edifici sacri, spesso del tutto simili a cattedrali gotiche, punteggiano il paesaggio: ma queste divinità (Akatosh, Arkay, Dibella…) danno assai raramente segni della loro presenza “reale”, tanto che anche alcuni libri presenti nel mondo di gioco mettono in dubbio la loro esistenza.

Viceversa, sono assai presenti i cosiddetti daedra, creature demoniache venerate da sette che si muovono quasi sempre ai margini della legalità: i principi dei daedra, ovvero i demoni-capi, sembrano i veri titolari delle varie sfere dell’esistenza, dalla luce all’oscurità, dalla ragione alla follia, e intervengono nelle vicende terrene mostrando una volubilità molto “umana”, un po’ come le divinità della mitologia greca.

La cosa interessante è che i principi dei daedra sono visti dal senso comune come creature pericolose anche quando il loro approccio è costruttivo, come nel caso di Azura, a capo della luna e delle stelle: perché i demoni, ovvero le creature fantasmiche con poteri soprannaturali, sono inevitabilmente dotate di potenziale distruttivo. Solo chi vive senza fare ricorso a questi poteri vive un’esistenza “sana”.

La serie Dragon Age, anch’essa di Bioware (2009), tenta un’operazione più filologica: nel mondo fantasy medievaleggiante descritto dal gioco c’è un rigoroso monoteismo, il culto del Maker, dotato anche di una sua profetessa martirizzata proprio come i martiri cristiani, Andraste.

Solo in un’occasione, quando viene sperimentato il potere taumaturgico delle ceneri della profetessa, questa fede sembra avere un qualche “vero” fondamento: in tutto il resto dell’avventura il Maker sembra un puro e semplice prodotto culturale, i cui sacerdoti peraltro si dimostrano spesso avidi, ottusi e bigotti.

Decisamente più profondo è l’approccio all’argomento di Planescape: Torment della defunta casa di sviluppo americana Black Isle (1999). Ambientato in un mondo fantasy alieno e multiforme, collocato nella “cerniera” tra i vari piani di esistenza, questo gioco dimostra, tramite una storia che è una sorta di lunga metafora, come ogni “fede”, ovvero ogni credenza perseguita con convinzione, abbia il potere di cambiare la realtà: in questo contesto la fede religiosa è solo una delle possibili varianti, forse la più ingenua in assoluto essendo basata su presupposti irrazionali.

Il più recente Disco Elysium della casa di sviluppo estone Za/Um (2019) è ancora più radicale e “tagliente”: in un mondo di fantasia assai simile al nostro il protagonista, coinvolto suo malgrado in una vicenda poliziesca hard boiled, sperimenta sulla sua pelle quanto la sua identità dipenda anzitutto dalla sua capacità di rielaborare e razionalizzare i traumi del suo passato, di fronte ai quali le fedi, religiosa o politica, possono solo ambire a essere precarie stampelle psicologiche.

Strategici, gestionali e giochi God-like: la religione come prodotto culturale

Nei giochi strategici e gestionali il fruitore non è immerso nei panni di un protagonista ma guarda il mondo dall’alto e prende decisioni che hanno conseguenze spesso enormi sui suoi sottoposti, siano essi tutti gli abitanti di una nazione o “solo” i componenti di un esercito che si prepara alla battaglia.

Il potere smisurato messo nelle mani dell’utente ha fatto sì che alcuni giochi di questo tipo siano stati etichettati come God-like: ovvero giochi in cui il fruitore ha poteri paragonabili a quelli di un dio.

Tra i più celebri strategici a turni di ogni tempo, la serie Civilization degli statunitensi Firaxis permette al giocatore di controllare una civiltà ispirata a una storicamente esistita e di condurla dall’età della pietra al futuro.

È molto interessante scoprire il ruolo assegnato alla religione in questo contesto: nell’ultimo capitolo della saga (2016) i giocatori possono “addestrare” sacerdoti e profeti e usarli per fondare una fede, che poi potranno usare per “conquistare” i territori nemici. Certo, la fede che costruiremo ci darà qualche bonus sulla base delle sue premesse e dei suoi contenuti: ma il motivo per cui si fonda una religione è anzitutto usarla come arma di conquista, proprio come si farebbe con un esercito.

Anche nella celebre serie di strategici in tempo reale Age of Empires di Ensemble Studios, oggi passata a Relic Entertainment (il primo capitolo è del 1998), i sacerdoti e i monaci sono in tutto e per tutto unità militari: solo che invece di uccidere il nemico lo “convertono”, ovvero lo fanno diventare uno dei nostri.

Sentire sul campo di battaglia l’inconfondibile “wololo”, ovvero la cantilena emessa dai sacerdoti mentre tentano di convertire un’unità, mette i brividi più di quanto facciano i clangori degli scontri “fisici”. I giochi gestionali pongono l’accento, anziché sulla competizione bellica, sulla costruzione di una civiltà che funzioni bene dal punto di vista economico: i più famosi sono i cosiddetti city builder, che danno ai fruitori il compito di creare città ben organizzate, in grado di auto-sostentarsi.

Nella serie realizzata tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila dalla statunitense Impressions, tra cui sono titoli come Caesar e Pharaoh, il giocatore deve creare templi e santuari dedicati alle varie divinità perché se non lo fa queste ultime si arrabbiano e gli lanciano contro anatemi e maledizioni: viceversa, una divinità compiaciuta ci darà dei bonus anche importanti.

Ma sono anche gli abitanti della nostra città a voler avere nei pressi qualche edificio religioso: se non ce l’hanno non “svilupperanno” la loro abitazione, restando perennemente dentro a una precaria capanna anziché dentro una lussuosa villa. Apparentemente, in queste città non c’è spazio per gli increduli o per gli atei.

Questo però non significa che le riflessioni sottese a giochi come questi siano meno interessanti per noi: anzi, mettono in evidenza come la religione sia anzitutto un prodotto culturale, una esigenza “terrena”, proprio come può esserlo l’andare a teatro o l’avere accesso al vino o alle spezie.

Qualche volta, a essere messo indirettamente in evidenza è anche il sostanziale spreco di denaro e di risorse in cui si sostanzia la fede religiosa. Nella serie di city builder Anno della casa tedesca Blue Byte (l’ultimo episodio è Anno 1800 del 2019) gli edifici religiosi non hanno nessuna reale funzione se non accontentare i desideri del popolo: anzi, l’unico loro effetto concreto è consumare denaro, sia per la loro costruzione sia per il loro mantenimento.

In altre parole il giocatore, impegnato nel gestire una simulazione economica estremamente complessa, fatta di entrate e uscite da bilanciare attentamente, si trova costretto ad affrontare un inevitabile buco nero, una spesa del tutto insensata, senza la quale però il popolo si lamenta o può addirittura organizzare una rivolta.

Un conto è riflettere astrattamente su queste problematiche, un altro è viverle nella propria esperienza di giocatore: magari sperimentando il retropensiero secondo il quale quei soldi sarebbero stati meglio investiti in attività produttive “serie”, capaci al tempo stesso di aumentare la qualità della vita dei cittadini ma anche di rimpinguare il bilancio, aprendo così la strada a ulteriori miglioramenti futuri.

Mosè Viero

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