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Velo, religione e discriminazione | Le divise di lavoro e le divise della fede

Lo scorso anno la Corte d’Appello di Milano aveva dato ragione a una fedele musulmana a cui era stato rifiutato un lavoro di volantinaggio in una fiera, in quanto pretendeva di lavorare velata. La Corte di Giustizia Europea si è invece pronunciata in una direzione diametralmente opposta. I due casi giunti a sentenza riguardavano il Belgio e la Francia

 

Secondo la Corte, i regolamenti interni che vietano di indossare capi che promuovono ideologie (politiche o religiose che siano) non costituiscono una discriminazione, se sono applicati allo stesso modo a tutti i dipendenti.

La controversie sono inevitabili, quando la propria libertà di religione viene contrapposta alla libertà di coscienza altrui. Altrimenti detto: quando si pretende di imporre convinzioni di parte a tutti. Nel caso specifico, ai datori di lavoro — e ai loro clienti. A riprova, quando l’azionista di riferimento (musulmano) ha rinnovato le divise Alitalia, le hostess hanno dovuto far buon viso a cattivo gusto. In fondo, anche le religioni impongono rigidi dress code a chi ne fa parte, e non dovrebbero pertanto impedire ad altre organizzazioni di fare altrettanto.

Chiunque abbia lavorato per un imprenditore privato sa che il rispetto delle regole fa parte delle clausole standard del contratto di lavoro. Chi ritiene che qualunque patto abbia sottoscritto con la divinità che adora sia più rilevante si deve dunque trovare un altro padrone. O meglio: se l’è già trovato, ed è fin troppo esigente.

Raffaele Carcano

Questo articolo è stato pubblicato qui

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