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Università pubblica non significa necessariamente Statale

Altro pezzo che farà storcere molti nasi. A sinistra c’è un dogma che è assolutamente tabù, per il quale pubblico è sinonimo di statale. Senza eccezioni e senza differenze. Per cui, ad esempio, la proprietà pubblica significa senza dubbio dello stato, dopo di che si capisce poco la differenza fra socialismo e capitalismo di stato.

Personalmente sono un sostenitore della ripresa dell’intervento statale in economia e l’ho scritto spesso, ma questo non vuol dire che ogni intervento statale sia sempre utile, opportuno ed auspicabile. Soprattutto non è affatto detto che pubblico sia sempre e solo statale. Dal dogma statalista discende un altro dogma per cui “mercato” è sempre sbagliato e di destra, mentre una economia di sinistra è sempre pianificata e sterilizza le tendenze di mercato. Ottima premessa per fallire facendo la fine dell’Urss.

L’antimercatismo è una scemenza perfettamente simmetrica a quella di chi crede alle virtù taumaturgiche del mercato. Il mercato è il dispositivo primario di difesa della società civile dal potere politico. Ma, ovviamente, va regolato, contrappesato e, soprattutto, non bisogna credere che sia un orologio svizzero che non sbaglia mai: ogni tarto bisogna riportare le lancette un po’ indietro o un po’ in avanti. Mercato e stato sono meccanismi complementari.

Uno dei campi in cui la confusione fra pubblico e statale ha fatto più danni è quello dell’istruzione, includendo in essa scuola ed università. Noi siamo certamente favorevoli alla scuola pubblica, ma esistono diversi modi di intendere il carattere pubblico dell’istruzione, oltre quello statale. Ad esempio c’è quello degli enti locali, diffuso soprattutto negli stati confederali come Svizzera e Stati Uniti. Oppure forme sostenute da soggetti sociali come sindacati, cooperative, associazioni ecc. O forme miste fra i vari tipi.

L’istruzione statale origina nel XIX secolo fra Germania e Francia e poi, man mano, estesa all’Europa continentale. Bisogna dire che si è trattato di un modello che ha avuto la sua ragion d’essere e la sua funzione positiva per oltre un secolo. Senza di esso non ci sarebbe stata acculturazione o istruzione di massa, ci sarebbe stata meno mobilità sociale, si sarebbero fortemente rallentati i processi di formazione dell’identità nazionale, lo Stato sarebbe stato assai meno centralizzato. E l’esempio degli Usa (ed in parte dell’Inghilterra) non vale affatto a smentire questa valutazione storica, per le particolari peculiarità della formazione sociale che consente maggiore mobilità, mentre altri aspetti come l’acculturazione di massa, il carattere decentrato dello Stato, la particolare identità nazionale sono tutti aspetti che, per certi versi risentono della spessa specificità del caso, per altri, confermano le dinamiche che indicavamo.

Dunque, fuori discussione la validità storica dell’istruzione statale che, fra l’altro, ha garantito standard professionali di docenti e studenti più omogenei. Ma, come sempre, una soluzione –anche la più valida – contiene i problema successivo e non ci sono soluzioni buone una volta per tutte. Con il tempo è inevitabile che i costi aumentino, i benefici calino e, sempre più prepotenti emergano gli effetti controintuitivi, per cui non esiste una soluzione definitiva buona una volta per tutte.

Lasciamo da parte la scuola, di cui parleremo in altra occasione, e concentriamoci sull’università. La statizzazione dell’insegnamento ha portato con sé effetti indesiderabili che sono andati via via crescendo:

a- ingerenza politica con pericolose tentazioni verso una “verità di Stato” particolarmente evidenti nei regimi totalitari;

b- tendenza al dirigismo ministeriale nei regimi non totalitari come i quelli liberali che garantiscono un limitato (insisto: limitato pluralismo, per non dire dei casi in cui lo Stato si fa portatore di ingerenze religiose) che comporta un appiattimento della ricerca e, soprattutto della didattica, in ossequio ai “programmi o piani di studio ministeriali”;

c- tendenza ad attuare il principio di eguaglianza come uniformità, per cui tutto è regolato allo stesso modo, con le stesse procedure burocratiche, che si tratti di preparare un insegnante di lettere o un laureato in informatica, un medico o un architetto. Tutto è studiato per essere assolutamente uniforme a cominciare dal calendario a finire all’arredo scolastico o al disegno delle aule. Ed ovviamente questo azzera ogni possibile sperimentazione;

d- Il principio di uniformità produce danni particolarmente gravi nella formazione del corpo docente, organizzato sul modello gerarchico dell’esercito, con precisi gradi cui corrispondono altrettanto precisi livelli retributivi, quale che sia la capacità didattica ed il carico di lavoro del docente, con il risultato finale di dar luogo ad una “corporazione irresponsabile” (soprattutto nell’università) che attua selezione e promozioni con caratteri esclusivamente clientelari e nepotistici (diciamocelo una volta per tutte) ed ogni possibile riforma si infrange contro l’inattaccabile roccia della corporazione accademica;

e- La strutturazione corporativa della docenza, insieme all’ingerenza della politica ed all’invadenza degli indirizzi ministeriali, spinge verso il più piatto conformismo culturale e la riprova si è avuta con l’affermazione del pensiero unico neo liberista che ha ricevuto la pronta adesione dei docenti non solo di economia ma anche di ampie fasce di storici, politologi, sociologi e, soprattutto, giuristi in tutta Europa;

f- E il tutto garantito dal tabù del valore legale, per cui, se vuoi che il titolo che concede la tua università (statale o parificata che sia) sia spendibile per professioni e concorsi, devi fare quelle materie, con quei metodi di insegnamento, quel tipo di esami, quel tipo di tesi ecce cc e senza nessun “colpo di fantasia”.

Non si tratta di difetti di poco conto che, per di più tendono ad aggravarsi in una società con i caratteri di quella attuale. Si pensi ad un particolare: la (scellerata) riforma Berlinguer varò una infinità di corsi di laurea (circa 3.000 sulla carta) con un diluvio di nuove materie, con il fine di far corrispondere ciascuno di essi ad un profilo professionale preciso e fu una pioggia di scemenze esilaranti: da “gattologia” a “scienza dei fiori”, “Turismo lacustre”, ecce cc. Ma, al di là degli aspetti più demenziali, la riforma è stata un fallimento completo, sia per quanto attiene al tentativo di ridurre sensibilmente la dispersione universitaria, sia sul piano della corrispondenza titolo/figura professionale e questo sia per le deliranti trovate della commissione ministeriale, sia perché l’attuazione ha richiesto tempi abbastanza lenti, dopo dei quali le tendenze del mercato del lavoro sono mutate ed alcuni di quei profili sono scomparsi, mentre ne sono emersi di nuovi che non trovano soddisfazione nei corsi esistenti.

Vedremo meglio in altra occasione il perché di questo disastro, per ora segnaliamo il problema dell’eccessiva lentezza delle procedure ministeriali rispetto alle tendenze di mercato, sempre più veloci.

Ed allora che si fa? Interverrò diverse altre volte sul tema, qui dico subito dove voglio andare a parare: demolire pezzo per pezzo l’università statale, cominciando dal valore legale del titolo di studio, ma salvando il carattere pubblico dell’Università. Ovviamente, con la gradualità necessaria e senza “cariche renziane”, ma puntando con decisione al risultato finale. In uno dei prossimi articoli esporrò quale modello possa sostituire l’attuale ordinamento, per ora mi preme che si discuta non di principi astratti ma di tendenze e fenomeni reali.

Una avvertenza: non rispondetemi dicendo quali sono i difetti della università privata perché li conosco e non è quello che propongo.

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