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Università e Ricerca nelle proposte del PD

In questi giorni il PD ha presentato un bel libretto per esporre in modo succinto ma non solo tramite slogan le proprie proposte per “L’Italia di domani” (che è anche il titolo del libro).

Il libretto è abbastanza agile, il formato sembra poter coniugare “comunicazione” e “proposte concrete”, il tutto corredato da belle foto e qualche “highlight” su ogni tema. Insomma rispetto alle 600 e passa pagine del programma dell’Unione un notevole passo in avanti. Andando oltre i saluti di rito di segretario, Presidente dell’assemblea nazionale e vice-segretario, si delineano i differenti temi sui quali si declinano le proposte del partito.

Si inizia con “famiglie e politiche sociali”, si continua con “lavoro”, “salute”, “scuola”, “sicurezza”, “immigrazione” etc. Non voglio entrare nei dettagli di ogni tematica, ma soffermarmi su una sola, quella “Università e Ricerca”, senza non poter prima non restare abbastanza sorpreso dalla mancanza di qualcosa sulle politiche industriali (a parte un capitolo sulla “green economy” in cui però c’è un po’ di tutto, anche i rifiuti).

Ma torniamo a “Università e Ricerca”, cui sono affidate quattro pagine (si possono trovare anche online). Il primo paragrafo è sulla spesa nella ricerca, il cui messaggio principale è "investire su istruzione, università e ricerca". Proposito lodevole e sacrosanto, quindi uno si aspetterebbe di capire come vogliono farlo in modo “efficace”, ovvero non foraggiando l’inefficiente e arcaico sistema baronale che conosciamo bene.

Ricordiamo che se, come si dice, gli studenti italiani sono considerati ben preparati, almeno nelle discipline tecnico-scientifiche, nessuna Università italiana figura tra le prime 100 del mondo né nel 2010 né nel 2011 (anche se si guardano altre “classifiche” il risultato non è molto diverso). Nella versione lunga della proposta del PD su Università e Ricerca, che risulta ancora essere una bozza di lavoro e che si può trovare online si può trovare qualche bozza (appunto) di proposta concreta. In particolare si parla dell’istituzione di una Agenzia della ricerca (che suona molto simile all’ANR francese) anche se non è chiaro quale sia la sua relazione con tutti i vari meccanismi presenti attualmente.

Il capitolo successivo invece è una critica al governo (quello precedente oramai) e alla legge Gelmini che viene accusata di rendere l’Università iniqua, in particolare perché “ammazzerebbe” il diritto allo studio. Sul “diritto allo studio” presente nella riforma Gelmini avevo già parlato quasi un anno fa commentando parte della riforma. Resto della stessa opinione ed è sempre un po’ triste leggere una certa superficialità nelle critiche.

Nella legge si fissano dei criteri di merito nazionali e non credo che il sistema attuale sia veramente equo e giusto. E’ sicuramente da criticare il “comma leghista” che vincola una parte di queste borse alla regione di provenienza (cosa che in sé non sarebbe neanche illogica in un sistema federale, negli USA le Università pubbliche hanno tariffe più basse per gli studenti provenienti dallo stesso stato), ma non credo lo sia il principio in sé di premiare gli studenti meritevoli.

Insomma si sente la stessa confusione tra “diritto allo studio” e “diritto al diploma” che si sentiva un anno fa al tempo della nascita della riforma universitaria e che ancora riecheggia tra gli studenti che, un po’ come le olive, tornano ogni autunno a manifestarsi. Ma cosa è più “di sinistra”, o democratico, o progressista, dare un diploma uguale a tutti o aiutare i meritevoli? Perché poi, a parità di titoli, cosa sarà più importante nella carriera lavorativa se non la rete di conoscenze familiare?

Anche molto criticato è il “cursus honorum” stabilito dalla legge per diventare professori, che è un altro punto che avevo già descritto come tra i meno criticabili. Non vengono presentate poi molte soluzioni alternative, si dice “accesso rapido alla carriera dal primo contratto triennale” e “ruolo unico del professore”. Sul primo punto bisogna andare a vedere il documento completo, dove si parla di tenure track subito dopo il dottorato.

E’ una proposta (almeno) che però è molto “debole”. In genere il cursus honorum della ricerca attuale vede dopo il dottorato un periodo di post-dottorato necessario per apprendere nuove o diverse tecniche, confrontarsi con altre realtà. Per esempio al CNRS francese, per parlare di un sistema non troppo dissimile da quello italiano attuale, è consuetudine chiedere ai futuri ricercatori di aver passato un periodo all’estero dopo il dottorato (nel caso si sia fatto il dottorato in Francia).

Anche il ruolo unico del professore è qualcosa di molto demagogico e poco sensato, soprattutto in un sistema che non si delinea all’americana con pochi group leaders a tempo indeterminato (e anche lì ci sono diversi livelli di professore). Si vuole avere un esercito di soldati senza generali o di generali senza soldati? Si vorrebbero quasi tralasciare poi i puri slogan “no al nepotismo” e “ricambio generazionale”.

Il primo problema secondo loro si supera con il blocco del turn-over e con nuove risorse; questa è un’affermazione priva di logica se non vogliamo assumere il principio del tavolo imbandito: quando la torta è grande qualche briciola può andare anche a chi non ha un padrino che gli concede un po’ di spazio sul tavolo. Il secondo allineando l’età pensionabile a 65 anni, che è un provvedimento sensato ma che in sé non porta alcun ricambio generazionale ma al limite abbassamento dell’età media. Il ricambio si ha quando diventano (come in molte parti del mondo succede) full professor, con autonomia di ricerca e con i finanziamenti per questa autonomia in termini di persone che lavorano per lui e di strumenti, brillanti scienziati sui quarant’anni che hanno dimostrato al livello internazionale di conseguire ottimi risultati e di poter portare avanti una linea di ricerca indipendente e innovativa.

Si parla quindi di “rilancio dell’Università” con regole di equità, opportunità e qualità. Anche qui principi sacrosanti, ma che potrebbe dire chiunque se non si declina almeno un esempio. Segue un paragrafo sulla mobilità degli studenti e lo status con diritti chiari. Questo è sicuramente necessario, ma è un quadro che si scontra con il federalismo (pensiamo alla sanità) e con il concetto “rigido” di “residenza” che si ha in Italia.

Si conclude con 10000 borse di studio da 10000 euro (che suona più come uno slogan) da attribuire ai meritevoli e non si capisce come questo sia in contraddizione con i principi della legge di riforma Gelmini. Questa legge ha molti spazi per definirne la sua applicazione che sono delegati a decreti ministeriali. Ha prevalso la facile demagogia “no Gelmini no Berlusconi” su un possibile quadro più attuale e incisivo. Da notare come guardando la bozza completa ci siano invece molti punti interessanti che sono estremamente compatibili con lo spirito che pervade la riforma Gelmini, come per esempio quello sul “piano strategico del sistema universitario” che arriva a prevedere Università solo didattiche o solo triennali e Università di ricerca.

Prima di terminare, bisognerebbe notare come nei dibattiti che annualmente in questo periodo infiammano l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori (studenti, ricercatori, politici) ci sia un aspetto che non viene mai considerato: l’esistenza e l’utilità dei centri di ricerca. Questi esistono (CNR, INFN, ENEA, ISPRA) e sono stati delle esperienze di eccellenza nel passato non tanto remoto dell’Italia. Anzi in molti casi lo sono tutt’ora (pensiamo ai laboratori INFN del Gran Sasso di cui tanto si è parlato poco tempo fa).

Vanno sicuramente rilanciati e ripensati, e in questo si spera che avere ministro della Ricerca chi, se pur per poco tempo, è stato presidente del CNR non potrà che aiutare. Sono anche importanti per un’altra questione (e qui bisogna considerare anche i grandi centri di ricerca privati che sono sempre stati marginali in Italia): lo sbocco occupazionale dei dottori di ricerca. Questi ultimi ancora per buona parte dell’opinione pubblica (e temo in parte anche per la classe politica) sono considerati come quelli che un tempo erano gli “assistenti”, ovvero persone che vogliono entrare nel sistema universitario e che sono in coda presso un professore in attesa del proprio turno.

Sono invece, al pari dei loro colleghi del resto del mondo, degli studenti, che devono apprendere a fare ricerca. La potranno poi fare nelle Università, ma ovviamente questo sarà possibile solo per una minoranza. Ma la potranno e la dovranno fare nella società, sia negli enti pubblici sia nei centri privati. Solo così l’investimento per l’innovazione diventa infatti reale nella società, nella cultura diffusa e anche nell’economia.

Per concludere, il breve libretto “L’Italia di domani” ha una certa qualità comunicativa anche se risulta troppo “grossolano” in certi aspetti. Tra l’altro rischia di essere quasi superato, perché sembra essere stato preparato in vista di elezioni post-Berlusconi. Molto più utile e forse saggio alla luce della formazione del governo Monti, il cui Ministro Profumo sicuramente dovrà lavorare per la piena attuazione della legge Gelmini, sarà riprendere a lavorare sul documento completo e trasformarlo da bozza in azioni concrete da proporre al ministro e al parlamento in modo da delineare una linea del PD che sia coerente e fattibile.

Coerente con lo spirito del “ciascuno secondo le sue possibilità e secondo i suoi meriti” che dovrebbe pervadere un partito progressista moderno e al tempo stesso attuabile nella situazione economica e nella reale situazione in cui versano l’Università e la ricerca italiane.

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