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Una scuola annoiata e insicura

La Scuola è in crisi, come la politica, l’economia e la società civile. Crisi di transizione – si dice. Ma credere che una correzione di rotta possa venire da interventi esterni è illusorio e fuorviante. Bisogna credere di più nelle proprie capacità ed avere più coraggio nel ristabilire certe verità sulla scuola .

Infatti tutti vorremmo per i nostri figli una scuola eccellente. Ma nella realtà quotidiana non riusciamo, ormai da gran tempo, ad organizzarne una normalmente credibile.
 
Il governatore della Banca d’Italia Draghi ha affermato, nella relazione tenuta in occasione della giornata del risparmio il 31 maggio, che un quindicenne italiano, specie al sud, ha gravi “povertà di conoscenze” scolastiche, anticamera dell’indigenza economica.
 
Vorremmo una scuola competitiva, ma disdegniamo la selezione; vorremmo una scuola seria, ma promuoviamo tutti; vorremmo la disciplina, ma tolleriamo ogni cosa.
 
Occorrerebbe dire no alle violenze, opporsi al degrado delle sedi scolastiche, imbrattate magari di simboli pornografici, ma ci ritraiamo annoiati e infastiditi quasi, al pensiero che certe cose possano succedere; e invece andrebbero impedite. Vorremmo una scuola democratica, ma la democrazia non si fonda sui somari.
 
L’orizzonte scolastico è costellato di confusione, contraddizioni, assurdità.
Abbiamo sbagliato il nostro giudizio sul ’68 (comincia ad affiorare qualche autocritica su quel periodo e su quella mentalità); ma quegl’ideali o generose illusioni si sono affermati nel tempo ed hanno prodotto pedagogisti, esperti, programmi e incongruenze, frutto della superficialità ed astrattezza di quelle idee, le quali, camuffate sotto altri interessi ed altri slogan, tengono ancora banco nella vita quotidiana della scuola.  
Abbiamo assecondato grossi equivoci. Una scuola per tutti, che dequalifica al livello più basso, non serve a nessuno, né ai nostri figli né a quelli degli altri. Invece il riferimento alla selezione e alla meritocrazia deve essere fatto valere. Dire che tutti sono uguali non va bene. Ci sarà sempre lo sforzo di chi fa di più. “Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali tra disuguali” (don Milani – “Lettera a una professoressa di Barbiana”).
 
Uno dei principi fondanti di qualsiasi organizzazione è di saper premiare e di poter punire; e, se essa permette il formarsi di sacche di inefficienza e di parassitismo, è pessima e destinata alla decadenza.
 
Ma, nonostante una presa di coscienza delle reali condizioni dell’istituzione dalle elementari all’università, nella pratica quotidiana però la scuola continua a vivere di progetti fantasiosi e stravaganti al limite dell’incredibile. La scuola cura il ”conflitto d’interesse” dei docenti (rapporto tra numero degli alunni e classi, tra bocciature e promozioni) con promozioni di massa; e tratta con non minore superficialità il problema dei disabili.
 
Pure questo argomento, di per sé delicato, coinvolge interessi di docenti e famiglie non sempre coerenti con quelli dei disabili stessi e della comunità scolastica. E molto spesso questi interessi li si fa collimare per comodità e per carenza di buonsenso.
 
Alla famiglia fa talvolta comodo credere che la scuola può contribuire ad alleviarle il peso della gestione di un figlio disabile; alla scuola l’opportunità di inserire nella comunità un giovane bisognoso degli altri e quella di mantenere una cattedra per il sostegno.
 
Ma tutti questi elementi, che rendono complesso il caso di un disabile, di rado trovano sbocco in una sintesi nobile, perché talora l’esempio poco edificante ed interessato degli adulti illude, scontenta ed amareggia proprio quei giovani, disabili e non, che dovremmo educare.
 
Raramente si ode un’analisi seria e stringente sulle vere cause del disagio degli adolescenti, svogliati, assenti, ignorati da tutti, abbandonati alla loro solitudine, vittime dell’astuto ed interessato cinismo degli adulti, i quali riescono a dar loro, al massimo, qualche agio materiale, un predicozzo inutile ed ipocrita, ma mai un reale esempio di vita intesa, come sincerità, serietà, impegno, spirito di sacrificio.
 
Per consolarci o giustificare il nostro sforzo, talora non riuscito, di rimontare la china, diciamo che “i tempi sono cambiati”. Bene. Giambattista Vico sosteneva che gli uomini fanno sempre le stesse cose ma in forme diverse. Cambiano quindi i tempi, gl’individui, i metodi, ma la finalità strutturale della scuola resta e sempre resterà la crescita educativa ottenuta mediante l’istruzione. Senza il rapporto tra un professore desideroso di insegnare ed un alunno desideroso di apprendere non v’è scuola, non crescita individuale e civile.
 
E don Lorenzo Milani (tante volte volutamente frainteso ed additato a precursore del ’68 o di tante altre cose) proponeva, per il riscatto e l’emancipazione degli ultimi, a cui dedicò tutta l’esistenza, il mezzo formidabile dell’istruzione. “Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante, del fattore sarà spezzata” – diceva ai suoi ragazzi. E Renzo – nell’ultimo capitolo de “I Promessi Sposi” – memore delle sue disavventure, dovute alla mancanza d’istruzione, volle che i figli “imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacchè la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro”.
 
Conclusione. Continuare a tollerare, anche e soprattutto nella scuola, vizi reali, mascherati malamente da virtù dialettiche, sempre meno convincenti; continuare ad ignorare, con ottusa ostinazione, che gli uomini non sono eguali per intelligenza, intraprendenza, coraggio; e che l’unico criterio per selezionare la gioventù di domani, è quello del merito, del talento, dell’ambizione, significa immaginarsi la scuola come un cumulo di macerie su cui è assisa una comunità di persone senza speranza e senza voglia di risollevarsi.
 
 
  

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