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Una crescita possibile, con un po’ di buon senso

Leggendo i commenti che accompagnano le vicende della nostra politica, si resta esterrefatti nel costatare il clima di completa sfiducia che pare accomunarci. E’ come se sul paese gravasse la cappa di un pessimismo che, se pure trova qualche ragione nelle pessima congiuntura, non è, in realtà, più motivato di quanto lo fosse l’ottimismo affettato, fino a pochi mesi fa, dai fedelissimi del fu Presidente del Consiglio.

Allora c’era chi serrava gli occhi per non vedere la crisi che era già arrivata; oggi tutti diamo scontato che non vi sia più alcuna reale possibilità di crescita economica. Chi dandone la colpa ai cinesi e agli indiani e chi ai “limiti dello sviluppo capitalistico”, chi ai danni del berlusconismo e chi alla miopia delle sinistre, concordiamo solo sul fatto che il declino del nostro paese sia ineluttabile.

Non v’è alcuna ragione oggettiva perché debba essere così. Anzi. La globalizzazione, per un paese assolutamente eccezionale come l’Italia, dovrebbe rappresentare semplicemente una moltiplicazione delle opportunità e dei mercati; nell’era dell’indifferenziazione, dove tutto può essere fatto ovunque, il suo marchio è attraente come pochissimi al mondo mentre resta (e resterà sempre) strategica la sua posizione nel mezzo del Mediterraneo.

Dal turismo al settore agro-alimentare a quello dell’artigianato di qualità e dell’industria del lusso, per non parlare della logistica e dei servizi finanziari (perché mai non dovremmo tornare ad essere i banchieri e gli assicuratori dei Balcani e diventare quelli del nord Africa?), il nostro paese appare come un concentrato di potenzialità non sfruttate o sfruttate solo marginalmente. Lo stesso ritardo che ha in campo informatico è una straordinaria occasione di sviluppo che è lì, solo da cogliere, mentre sono pressoché intatte, se solo tornasse ad investire nell’istruzione, prima ancora che nella ricerca, le sue possibilità di essere protagonista della prossima rivoluzione tecnologica; quella che è già partita e, lo vogliano o no Enel ed Eni, riguarda i modi di produzione e distribuzione dell’energia.

Ci basterebbe pochissimo per tornare a crescere a ritmi cinesi; questa è la verità. Nulla o quasi, solo un po’ di fiducia in più nelle nostre capacità: quella che ci serve per mollare i rottami a cui siamo aggrappati e tornare a nuotare nella convinzione di avere tutte le possibilità per imitare, facendo addirittura meglio, i paesi del Nord Europa. Paesi che hanno continuato a svilupparsi anche in questo ventennio che noi abbiamo perso e che, tra l’altro, ci danno una pratica dimostrazione di come stato ed impresa non siano affatto termini inconciliabili, come vuole la retorica delle peggiori destra e sinistra.

Se disconoscere il ruolo dello stato è da mentecatti, è anche certo che, per quanto possano essere diverse le idee su come distribuire la ricchezza prodotta e si possa volere o no che i lavoratori abbiano certi diritti, senza impresa non si hanno né ricchezza né lavoro. Rimuovere i tanti e spesso assurdi ostacoli che incontrano le imprese italiane a nascere ed a svilupparsi, dovrebbe, non fosse altro che per questo, essere l’obiettivo prioritario di qualunque nostro governo, di destra o di sinistra che possa essere.

Non abbiamo soldi da investire nell’imprenditoria giovanile, ammesso che poi certi finanziamenti a fondo perduto si possano rivelare utili, ma non dovrebbe costare nulla rimuovere tutti gli ostacoli di carattere burocratico all’apertura di nuove società; fare sì che chi ne ha voglia possa diventare imprenditore con una sola comunicazione ad un solo ufficio pubblico, senza altre formalità. Si potrà, una buona volta, semplificare la nostra complicatissima normativa fiscale; è assurdo che un alberghetto gestito da mamma e papà o una dittarella artiglianale debbano dover ricorrere al commercialista per sapere quanto pagare di tasse o, addirittura, per sapere quando e come pagarle, viste le decine o centinaia di adempimenti di cui è costellato il calendario dei contribuenti.

Si potrà pur trovare il modo (lo suggeriscano i tecnici, appunto) per convincere, incentivare o, nel caso, costringere, il sistema creditizio ad aprire i cordoni della borsa nei confronti dei giovani e no che vogliono avviare un’attività e, soprattutto, che la vogliano far crescere. Le poche migliaia di euro necessarie per partire, si possono anche trovare in famiglia (e sono migliaia, pur con tutte le difficoltà, le nuove imprese che sorgono ogni anno), ma i milioni necessari ad un ampliamento anche minimo, per solito no. E infatti, mentre analoghe realtà statunitensi o del Nord Europa, dopo pochi anni di attività moltiplicano per dieci, cento o mille i loro fatturati ed il numero dei loro dipendenti, le nostre imprese partono piccole, crescono di un nulla e castrate, prima di ogni altra cosa, dalla mancanza di crediti, piccole restano.

Ancora: possibile che dopo aver soppresso l’orripilante ICE (era una vera e propria vergogna) non vi sia alcuna organizzazione per aiutare le nostre aziende a distribuire all’estero i loro prodotti? In giro per il mondo, anche nei posti più lontani e sperduti, si trovano spesso imprenditori italiani che, con il campionario in una valigetta e magari sapendo solo quattro parole d’inglese, tentano di trovare nuovi sbocchi per le proprie aziende. Alcuni di loro, bravissimi, ci riescono, ma è assurdo che non vi sia una struttura capace di fornire loro un sopporto logistico, degli studi di mercato o semplicemente, e sarebbe il minimo, una lista affidabile di potenziali clienti.

Interventi simili non comportano alcuno stravolgimento dei nostri valori, non impongono cambiamenti alla Costituzione o la rinuncia ad alcuno degli altissimi principi che soli informano, nevvero, la nostra politica.

Non dovrebbero, anzi, aver a che vedere con altro che un minimo di sano buon senso.

Commenti all'articolo

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.36) 27 marzo 2012 10:40
    Damiano Mazzotti

    Sinceramente non ho proprio capito perchè l’Ice sarebbe così orripilante... Magari negli ultimi tempi era stato invaso da alcuni aspetti della malapolitica... Ma la struttura e le funzioni dovevano essere e dovrebbero essere mantenute e rafforzate per sostenere le piccole e medie imprese... E se il sistema industriale non è ancora collassato è anche grazie a struttute come queste che hanno funzionato e nonostante tutto la politica le ha ostacolate o infettate...

  • Di Daniel di Schuler (---.---.---.59) 27 marzo 2012 11:54
    Daniel di Schuler

    Con l’ICE ho avuto una serie di pessime esperienze personali. Uffici deserti con un solo impiegato, che per di più parlava un pessimo italiano, lasciato a sorvegliare la posizione. Studi di mercato, pagati profumatamente e in anticipo, rivelatisi di nessun valore; semplici fotocopie di altri, stranoti, fatti magari anni prima da organizzazioni di altri paesi. Liste di potenziali clienti, pagate sempre in anticipo, che si sono poi rivelate essere le fotocopie delle locali pagine gialle. No, non per modo di dire; proprio le fotocopie dell’elenco telefonico. Mai generalizzare? Io ho avuto a che fare con gli ICE di tutto l’Est Europeo (ho smesso di vivere e lavorare da quelle parti una decina d’anni fa, devo ammettere) e la situazione era quella che ho descritto. Altri imprenditori e professionisti dell’export, basati in Sud America in Oriente e in Africa, mi raccontavano situazioni del tutto simili. In confronto, gli uffici commerciali della ambasciate di morli paesi emergenti, offivano servizi di prim’ordine.

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