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Un pomeriggio alla Badiuzza. Ovvero, dell’oblio

Il Caso vuole che da queste parti viva Robert Einstein, cugino di Albert. Fa l’ingegnere; suona il piano, ama le buone letture, è un giusto; ha moglie e due figlie; la grande, studia medicina a Firenze, la piccola fa ancora le medie. Arriva la Wehrmacht in ritirata.

A Rignano sull’Arno c’è un cinema, ma è chiuso da vent’anni; dunque il film, qui, non l’hanno potuto vedere… “Ecco, vede quella casetta là in fondo, tra i campi? Lì c’è la tomba e il monumento”. Umberto – 24 anni, capelli cortissimi, viso pulito, il garbo inconfondibile della parlata toscana – lavora nella trattoria dove ho mangiato. Prima mi dà solo informazioni: la corriera Sita da prendere, la strada per S. Donato in collina, i 6 chilometri da fare. Poi ci ripensa: sono quasi le tre, sta smontando, mi ci accompagna lui alla Badiuzza; ma solo l’andata: per tornare, saranno fatti miei. Accetto.

La tomba è quella della famiglia Einstein-Mazzetti; c’hanno fatto un film su questa storia; un film lieve, delicato, pieno di pudore, “Il cielo cade”, con Isabella Rossellini. Il cimitero è minuscolo, al massimo trenta, quaranta sepolture; tutt’attorno, colline, e le tipiche dolcezze del paesaggio toscano: filari di cipressi, vitigni, ville, casali sparsi. Fa caldo. E’ Agosto. Lo stesso mese di allora, nel ’44, sessant’anni fa. Gran brutta estate, quella; americani e Inglesi risalivano le valli, e tutto l’esercito tedesco si spostava verso nord. Tempi torbidi: di allentamento dei freni, di scatenamento delle cose peggiori. La guerra è perduta, c’è aria di resa dei conti. L’hanno ben capito gli infami che l’hanno voluta, che si dispongono adesso ad allungarla quanto più possibile, sfogandovi dentro la libidine oscura di cui rigurgitano.

Il Caso vuole che da queste parti viva Robert Einstein, cugino di Albert. Fa l’ingegnere; suona il piano, ama le buone letture, è un giusto; ha moglie e due figlie; la grande, studia medicina a Firenze, la piccola fa ancora le medie. Arriva la Wehrmacht in ritirata. Per posizione, è quella la villa più adatta. La requisiscono e ne fanno il loro comando. Sono le dure, speciali necessità di ogni guerra. Ma tutto va bene: il generale tedesco è un gentiluomo: i proprietari potranno continuare ad abitarne un’ala. D’altronde, non è probabile una lunga permanenza. Quando se ne vanno, gli alleati sono a pochi chilometri. Pare la fine di un incubo, ma è destino che non sia così. Quella stessa notte compaiono due partigiani: parlano con l’ingegnere: i tedeschi lo cercano, è meglio che venga via. L’ordine è venuto da Berlino: cercare e liquidare il cugino di quel maledetto ebreo passato con gli americani. Una vendetta trasversale, una roba da menti mafiose. L’ingegnere si lascia convincere. Poche ore e alla villa arriva puntualmente il branco dei sicari. Sono gente speciale, SS, soggetti a mezzo tra delinquenza e politica; gli eterni sciacalli della storia. Prendono in ostaggio le donne, le interrogano, le costringono a chiamare il loro congiunto; forse usano loro violenza. Infine le assassinano a colpi di mitra e ne bruciano i cadaveri.

Sogni, pensieri, desideri, la tela intatta di tre ben costruite esistenze, lacerata in un attimo, per un gesto ottuso, facile, tirare un grilletto. L’ordine è stato eseguito: la preda grossa è sfuggita, ma le sue saranno lacrime amare. Il mandante, l’ometto coi baffi, a Berlino, può ben godersi il suo sadico capriccio. Robert Einstein sopravvisse quasi un anno, come una larva inebetita; poi, un giorno di Luglio, venne qui al cimitero e si tirò un colpo di fucile sulla loro tomba. La tomba di Cici, Luce, Nina Einstein-Mazzetti. Troppo grandi, a volte, certi dolori, per essere sopportati. Faccio qualche foto. Sono le quattro del pomeriggio e il sole picchia implacabile. Attorno, silenzio assoluto. Solo qualche rarissima macchina. Ho sei chilometri davanti e neppure un cappellino per la testa. Non c’è molto da scegliere. Mi sfilano davanti seconde case, frazioncelle di residenti, campi, vitigni, cipressi; la strada a tratti è in salita. Faccio molte foto. Due ore dopo sono di nuovo a Rignano, alla stazioncella, da solo, su una panchina consumata; l’Arno di fronte. È esattamente il tre di Agosto, la stessa data che ho trovata stampigliata in rame sulle tombe. Una misteriosa cabala mi ha spinto sin qui proprio nel giorno anniversario; ed ha voluto che il frivolo rullino della mia vecchia reflex fosse sganciato.

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