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 Home page > Tribuna Libera > Un’immagine dei nostri giorni: il volto di Stefano Cucchi

Un’immagine dei nostri giorni: il volto di Stefano Cucchi

Di questo passo, un Cucchi dopo un Aldrovandi, stiamo finendo nella barbarie.Tra omertà e complicità. Nel silenzio.

Ho messo due dita del solito Porto nel bicchiere, ho sgusciato qualche noce e ho acceso il computer. Il monumentale libro sull'arte africana in cui l'avevo trovata era già lì, sulla scrivania. Avevo tutto pronto per cominciare a scrivervi di una statuetta yoruba: il punto di partenza di un discorso più ampio sulla complessità di quella cultura; di una civiltà che aveva sviluppato un'estetica diversa ma raffinata quanto la nostra. Qualche riga, ripresa da un altro mio scritto, sono anche riuscita a metterla giù. Una considerazione, che credo di dovere a Gombrich, sulla necessità che sentivano i romani di descrivere come ater o niger quel che noi chiamiamo semplicemente nero, paradigma di quanto possa cambiare, nel tempo, pure dentro la stessa Civiltà, anche la semplice sensibilità cromatica. Non sono andato oltre. Proprio non ci sono riuscito.

Mi sembrava assurdo raccontare di quel principe nigeriano e della sua acconciatura quando nei miei occhi non c'era l'immagine del suo volto serafico, stampato sulla bella carta patinata, ma quello massacrato di Stefano Cucchi. Un'immagine, quella che avrete visto anche voi, che mi ha sconvolto. No, non potevo giocare all'esteta. Non posso. Ho due figli, e non posso concepire dolore più grande che perderli. Un tempo, quando sentivo qualcuno dire “per i miei figli andrei nel fuoco”, provavo quasi fastidio: la consideravo una crassa esagerazione; qualcosa di melodrammatico come tanto di quel che esce di bocca a noi italiani. So ora che è la pura verità. Per i miei figli andrei nel fuoco. Come avrebbero fatto per lui i genitori di Stefano. Il dolore che io posso immaginare di provare loro, lo hanno provato davvero. Uno dolore reso ancora più tremendo dal modo in cui hanno perso quel figlio. Che si rinnova indicibile ogni volta che devono vedere quelle fotografie. Quelle immagini che potrebbero essere di ognuno dei nostri ragazzi. Non alzate le spalle. Non assumete atteggiamenti di superiorità. Può capitare benissimo che uno dei nostri figli si faccia pizzicare con 20 grammi di maria o qualche pillola. Noi li abbiamo educati, certo, ma loro sono loro, la società in cui vivono è quella che è. Per questo, non fosse altro che per questo, non possiamo far finta di nulla. Il volto di Stefano ridotto ad una maschera di ecchimosi è lì, nelle nostre coscienze, a chiederci se è questo il paese che vogliamo. A chiederci con che coraggio parliamo di Civiltà se un nostro cittadino (e non importa minimamente che crimini si pensa possa aver commesso) preso in custodia dallo Stato può essere ridotto a quel modo. E senza che vi siano dei colpevoli.

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“Non ci sono prove”, dice il presidente della Corte, che ci invita a fermare la “gogna mediatica”. Non ci saranno prove contro questo o quello, ma non ne servono oltre a quelle che si leggono sul volto di Stefano per dire che lo Stato ha fallito. Peggio. Che uomini dello stato sono omertosi come criminali. Tacciono per paura? E di cosa? Sempre dello Stato. Della vendetta di uno Stato che con la mafia forse non avrà trattato, ma di certo dalla mafia pare abbia appreso molto. Una dura accusa? E' tutta sul volto di Stefano. E nei comportamenti e nelle parole di uomini dello Stato. “Se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze”, dice il comunicato con cui il sindacato di polizia Sap ha commentato la sentenza. Una battuta di pessimo gusto, se fatta da uno di noi. In bocca a rappresentanti delle forze dell'ordine, tanto grave da imporre, ad un paese che conservi anche solo tracce di civiltà, di chiedere a costoro di lasciare immediatamente la divisa. Tracce di civiltà. In un paese davvero civile, mi disse chi mi insegnò ad andare per il mondo, un cittadino conta di non dover mai avere a che fare con la polizia. In un paese quasi civile, invece, sa che prima o poi dovrà andare a denunciare un furto o una rapina. I paesi barbari, sono quelli dove un cittadino onesto, se vede un poliziotto, scappa.

E di questo passo, un Cucchi dopo un Aldrovandi, è nella barbarie che stiamo finendo. Senza prove. Nel silenzio. Tra complicità ed omertà. E io che mi ritrovo senza parole, senza altre che non suonino vuote, retoriche, o banali. Solo mi viene da urlare un basta. Prima che capiti ad uno dei nostri figli o a uno di noi.

Solo un urlo e un abbraccio, con tutto il cuore, al padre, alla madre e alla sorella di Stefano.

E un ringraziamento per il coraggio con cui, strappandosi pezzi d'anima, esibiscono quella foto di un figlio e fratello che è loro, ma potrebbe benissimo essere nostro.

 

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.113) 3 novembre 2014 23:18

    Eppure pur essendo un tema importante importa veramente a pochi, nessuno cambierebbe il proprio voto per favorire la legge che punisca i torturatori, tutti o quasi a sostenere quell’uomo politico che promette più soldi e magari sui diritti civili chiude un occhio, quasi nessuno fa il contrario.

    Mi sa che quelli che sono di troppo siamo lei e me. Meglio emigrare.

  • Di (---.---.---.168) 9 novembre 2014 19:17

    Doppio registro >


    La tragica fine di Stefano Cucchi non può che turbare la coscienza umana e civile. Detto questo non si possono altresì ignorare alcuni aspetti collaterali che lasciano perplessi.


    SUA sorella sembra non voler perdere alcuna occasione per sbandierare in pubblico, a mo’ di trofeo, la scioccante gigantografia a colori del volto cadaverico e tumefatto del povero fratello.

    Questo senza un minimo di pudore e di rispetto per la “memoria” indotta a emblema del defunto. Nessuno si sognerebbe di affiggere una tale immagine sulla lapide cimiteriale.


    E ancora.

    RISULTA che la famiglia ha rinunciato a costituirsi parte offesa contro i vari soggetti sanitari coinvolti dopo che l’Ospedale Pertini le ha erogato un risarcimento da 1,340 milioni di euro. Risvolto minimizzato se non ignorato dai media.

    Sarebbe da chiedersi se un ulteriore analogo importo pagato anche dal Ministero della Giustizia sanerebbe, da subito, lo “strazio” e la sete di giustizia dei familiari.


    Nota Bene > Nulla cambia rispetto alla sostanza della vicenda. Questo è comunque un invito a riflettere. Non è facile non essere Travolti dalle Informazioni

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