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Un’idea rinnovabile: come uscire dalla crisi alla luce del sole

Le rinnovabili ed il territorio per rilanciare l'economia di questo stanco paese.

Dal porto di Genova e dalla provincia di Roma, due esempi di come rimettere in rotta la locomotiva economica italiana.

Non a caso i protagonisti sono due comunità locali, due amministrazioni pubbliche, ma a stretto contatto con gli interessi che rappresentano.

Da Genova apprendiamo come il porto si proponga di diventare uno straordinario hub energetico, grazie a sapienti mix di soluzioni rinnovabili (fotovoltaico ed eolico) con soluzioni innovative (semi di Jatropha) per alimentare la produzione di energia.

A Roma la provincia sta innescando un processo di connettività territoriale che fa giustizia dei mitologici piani nazionali di banda larga.

Entrambi gli esempi ci riconducono ad un unico principio: nel tempo della rete solo soluzioni basate su sistemi leggeri, autogovernabili, e scambiabili, cioè direttamente combinabili dagli stessi utenti, sono in grado di sostenere una nuova fase economica. Invece il governo langue.

Questo è il cosidetto modello a grid, divulgato da anni da Jeremy Rifkin.

La manovra economica, anche nella sua ennesima versione, non funziona. Peggio, aggrava proprio il problema che paralizza il paese: la mancanza di energie. Sia nella versione materiale, di energia propulsiva, sia in quella metaforica, di spinta progettuale.

Sembra davvero un paradosso ma dopo anni di finanza creativa e soprattutto allegra, scopriamo che le classi dirigenti nazionali non si ritrovano risorse di fantasia e volontà. Esattamente i due propellenti che avevano fatto decollare, in passato, il sistema Italia. Oggi serve, infatti, una grande fantasia per trovare combinazioni nuove a servizio del rilancio italiano. Giocando con gli stessi fattori che ci hanno portato sull'orlo del precipizio non se ne esce.

Giustamente diceva Einstein che i problemi non potranno mai essere risolti dalle culture che li hanno provocati. Bisogna cambiare le culture, e forse non solo quelle. Il quadro che abbiamo dinanzi non potrebbe essere più esauriente nella sua evidenza: un paese sfibrato dalla competitività globale, dove le industrie manifatturiere non riescono ad attecchire e le aree di artigianato industriale rischiano di evaporare per delocalizzazioni o imitazioni. E dove mancano strategie competitive sostitutive, che permettano di innalzare la soglia dell'offerta del made in Italy. Il tutto aggravato da una pubblica amministrazione impantanata nelle mille guerre catastali e una deriva di legalità, intrecciato da una volubilità giudiziaria, che rende sconsigliabile qualsiasi investimento.

Il debito pubblico è l'indice di questo sfacelo: più si varano misure per contenerlo più aumenta il suo divorante volume.

In questo quadro il governo non trova nulla di meglio da fare che bastonare uno dei pochi cavalli che bevono: negli ultimi cinque mesi il settore fotovoltaico, nonostante l'aggressione subita dal decreto Romani ha prodotto investimenti ed indotti che hanno portato alle casse dello stato contributi fiscali per circa 5 miliardi.

Bisogna allora rovesciare il tavolo: se si rimane all'interno delle compatibilità di questa inesorabile spirale non c'è speranza. Innanzitutto ci vuole un nuovo modello operativo basato proprio sull'unica riserva energetica nazionale che è notoriamente il sole insieme ad un nuovo soggetto che archivi l'attuale stagione politica burocratica.

Berlusconi è la conseguenza e non la causa di questo inabissarsi del sistema economico nazionale. Mancando una prospettiva si è formata un'alleanza speculativa di ceti sociali, aree territoriali e apparati economici che chiedono protezione e lentezza: se dobbiamo morire che almeno l'agonia sia lunga. Ed infatti il governo tira a campare, senza dare scosse, a condizione di non riceverne.

L'opposizione non pare intenzionata a voltare pagina: potrebbe cambiare lo stile di governo ma non la bussola delle decisioni.

Oggi l'unica possibilità di svolta viene dai territori: dall'insieme di interessi economici, diritti di cittadinanza e ambizioni individuali, che ritroviamo nelle città e nelle regioni.

Dobbiamo aprire la strada ad una strategia economica che rimetta in primo piano le comunità, che dia loro spazi, risorse e responsabilità. Un federalismo nazionale reale dove, senza velleità e fughe secessioniste, si discuta veramente di sviluppo e competitività.

Tale è lo scenario internazionale che abbiamo dinanzi: gli Usa, l'India, la primavera araba. Tre fenomeni che sono animati da un protagonismo dei territori, delle città, che stanno assumendo ruolo e potenza delle vecchie classi sociali.

Territori significa anche relazione e connessione fra i cittadini.

Questa è la seconda risorsa da mettere in campo.

Chiusa la parentesi fordista si apre una stagione dove la cultura sociale e relazionale italiana potrebbe essere straordinariamente valorizzata.

Dobbiamo mettere sul mercato la disinvoltura e la vocazione relazionale del cittadino italiano. I nostri asset sono oggi le grandi bandiere dello sviluppo globale: design, qualità della vita, patrimonio artistico, ambiente, sostenibilità.

Per farlo dobbiamo allestire e incentivare la produzione in rete, mettere in connessione individui, aziende, comunità. In questo l'esempio che ci viene dalla provincia di Roma, insieme a quello di centinaia di altri comuni e territorio, è importantissimo: dobbiamo costruire localmente, senza illusioni di piani nazionali, centinaia di piani regolatori della comunicazione.

La connettività è un'azienda tranviaria, che va sagomata localmente e non un sistema ferroviario che deve essere pianificato centralmente. Connettività significa prioritariamente produzione: dunque siano i comuni ad incentivare l'uso della rete come fabbrica e non solo come vetrina, avviino localmente sistemi di creative commons che promuovano l'entrata sul mercato di una leva di nuovi produttori di soluzioni e servizi digitali. Sono questi i posti di lavoro che ci mancano non quelli della Fiat. In questo contesto anche l'annoso problema energetico troverebbe una prospettiva positiva. Come abbiamo detto basterebbe almeno non sabotare scientemente le imprese che continuano ad investire nelle fonti rinnovabili.

La manovra governativa invece si è ulteriormente abbattuta sulle forme rinnovabili di energia. Una furia distruttiva inspiegabile, se non con motivazioni poco confessabili, come ad esempio sgomberare il campo da concorrenti scomodi a favore del vecchio monopolista statale. E' la conferma che il governo non solo difende il peggio ma, sopratutto, dimostra di non aver compreso nulla delle logiche che guidano le energie rinnovabili. Il passaggio dal nucleare al sole non è solo un'innovazione di prodotto è, innanzitutto, un'innovazione di processo.

Il sole è una forma di energia non solo tendenzialmente più economica - il recente studio di Google fissa al 2018 il sorpasso nella convenienza fra sole e petrolio - ma è soprattutto una forma sicura e decentrabile.

Proprio la sua flessibilità, la sua capacità di essere adattabile sia nella fase di produzione che in quella di consumo, alle mille esigenze del singolo utente o della comunità territoriale, rende il fotovoltaico l'energia del XXI° secolo, l'energia della rete, del nuovo mondo interconnesso.

Questa è la partita che dobbiamo giocare.

Come già la giocammo in passato. Nel passaggio dal legno al carbon fossile che XVII° secolo, quando proprio l'avvento di una forma di energia a basso costo e facilmente procurabile diede le ali alla prima rivoluzione industriale europea. O, ancora dopo, con l'avvento del petrolio. Ma proprio quell'esperienze storiche ci insegnano che non bastano gli indici macro economici per imporre una nuova forma di energia. Ci vuole un modello sociale, un comportamento, che diano forza e persuasione alla nuova cultura. Nell'Inghilterra del 1600 il passaggio al carbon fossile fu guidato dal diffondersi della domanda di abitazioni private riscaldate. Quel bisogno trovò nella nuova forma di energia l'unica soddisfazione possibile.

Oggi bisogna che il timone energetico sia tolto dalle mani di ministri incompetenti o, ancora peggio, troppo vincolati.

E' necessario che la bussola energetica sia disponibile per i centri decisionali reali, come appunto le comunità i distretti, i territori, le città. Milano, Roma, Napoli ma anche centri come Salerno, Trieste, Varese, Cagliari, devono poter organizzare un sistema energetico flessibile, disponibile, adattabile a basso costo.

L'esempio di Genova ci indica una strada percorribile: usare piattaforme galleggianti per accumulare e smistare energia. Sopratutto usare le ampie superfici dei centri industriali o commerciali che sorgono alla periferia delle città per creare mantici di produzione di energia, che dalla periferia possa giungere nei centri storici, senza modificarne profilo e struttura.

Noi come imprenditori del settore, sicuramente come SOSRinnovabili, siamo pronti a fare la nostra parte: ad investire ed ad impegnarci per un passaggio dal campo al tetto nella produzione fotovoltaica. Vorremmo trovare partner e non ostilità nelle città. Pensiamo ad un sistema energetico metropolitano, che parallelamente alla connettività, rimetta sul mercato le città. E' un modello radicalmente diverso dall'attuale, più italiano e sostenibile.

Forse per questo ignorato.

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