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Un attivista afghano cerca di salvare compatrioti Lgbt+ dal loro destino sotto il regime talebano.

Un attivista afghano cerca di salvare compatrioti Lgbt+ dal loro destino sotto il regime talebano: è Nemat Sadat, intervistato da Paolo Ferrarini per il numero 6/2021 della rivista Nessun Dogma.

Le immagini indelebili che abbiamo negli occhi da quest’estate, di persone aggrappate ai carrelli di aerei militari in decollo, testimoniano la disperazione incommensurabile di chi sa di non avere altre opzioni che la fuga, per salvare la pelle. La repentina presa del potere da parte dei talebani ha colto alla sprovvista diverse comunità di persone, per le quali si prospetta, sotto il nuovo regime, non soltanto un futuro di povertà materiale e miseria psicologica, ma con tutta probabilità, la morte. Fra queste comunità, una delle più esposte e a rischio è senz’altro quella dei cittadini Lgbt+. Ne abbiamo parlato con Nemat Sadat, accademico, scrittore e attivista gay afghano residente negli Stati Uniti, che da settimane sta lavorando freneticamente per contribuire a portare in salvo quante più persone possibile.

Nemat Sadat ha una storia interessante alle spalle. Emigrato in California da piccolo con la famiglia, acquisisce una certa notorietà a partire dal 2012-2013, periodo in cui torna a Kabul per insegnare scienze politiche all’Università Americana in Afghanistan. «Deciso a contribuire al progresso culturale del mio Paese d’origine ho dato vita, sui social e nel campus, a una serie di campagne di sensibilizzazione all’inclusività. Purtroppo queste attività, ritenute sovversive dell’ordine sociale imposto dall’islam, hanno rapidamente attirato l’attenzione dei fondamentalisti e in seguito del governo, il quale ha fatto pressione sull’ateneo per farmi licenziare in quanto minaccia alla pubblica sicurezza. Appena tornato negli Stati Uniti, ho pubblicato un post su Facebook per rispondere a tutti i pettegolezzi e chiarire una volta per tutte il mio orientamento sessuale, diventando ufficialmente il primo afghano apertamente gay.

A Kabul, esplode il caso. Giornali, radio e televisioni riportano e commentano la notizia, provocando lo sdegno della maggior parte della popolazione, incapace di concepire una sintesi tra uno stile di vita omosessuale e l’appartenenza all’islam. In strada, la gente fa battute su di me, i tabloid pubblicano storie fantasiose sulla mia promiscuità, i politici mi usano per infangare gli avversari, inventando corrispondenze epistolari erotiche con me. I mullah mi condannano pubblicamente con una fatwa, e la mia casella di posta elettronica si riempie di minacce di morte. Arrivano però anche centinaia di messaggi da parte di afghani che vivono in segreto la propria omosessualità e che mi considerano un eroe, ringraziandomi per aver dato loro speranza, e visibilità alla causa. La consapevolezza di poterli in qualche modo aiutare, e di avere se non altro originato un dibattito su un argomento fino a quel momento completamente tabù, mi ha dato la forza per continuare il mio attivismo».

Nemat, che nel frattempo ha abbandonato l’islam, diventa un nome di riferimento anche per i media internazionali, facendo numerosi interventi e apparizioni sulla Cnn, Nbc News, Bbc, The Guardian, eccetera. Nel 2019, Penguin pubblica in India il suo primo romanzo, The Carpet Weaver, una storia a tematica gay con protagonisti afghani, che riscuote un notevole successo editoriale. Intanto, in Afghanistan, nonostante la diffusa ostilità e le leggi impietose del paese, la comunità Lgbt+ sembra vivere una sua piccola “primavera”. «Nelle città, in particolare a Kabul, i giovani, ispirati anche dal mio coming out, spingono verso il cambiamento. Per la prima volta si cominciano a vedere coppie che vanno a vivere sotto lo stesso tetto, uno sviluppo impensabile in un paese in cui i rapporti sessuali erano sempre stati vissuti fugacemente, in totale clandestinità e autocensura. Certo, è ancora sostanzialmente necessario nascondersi, ma sui social la gente parla e acquisisce consapevolezza dei propri diritti, grazie anche al supporto degli alleati occidentali. Mi spingerei a dire che la situazione in Afghanistan a questo punto è potenzialmente migliore rispetto ad altri paesi musulmani, e all’atto pratico non così diversa da quella che poteva essere la vita gay in Europa fino a un secolo fa. Sono convinto che di questo passo non era impensabile arrivare in tempi ragionevoli alla decriminalizzazione o addirittura al conseguimento di qualche diritto civile».

La presa del potere da parte dei talebani ha istantaneamente spazzato via ogni forma di progresso. L’obiettivo ora non è più quello di ottenere diritti, ma di restare in vita. «Non c’è bisogno di aspettare per vedere cosa faranno i talebani al governo. Basta guardare cos’hanno continuato a fare negli ultimi anni nelle regioni sotto il loro controllo. La loro strategia di caccia all’uomo si fonda sull’ausilio di informatori: possono essere uomini che si fingono interessati a incontri sessuali e che poi sequestrano, uccidono e fanno sparire le vittime cadute in trappola, oppure i talebani possono rivolgersi alle autorità locali affinché consegnino loro tutte le persone notoriamente omosessuali, per sottoporle pubblicamente al trattamento previsto dalla shari’a. A livello nazionale, il loro è un piano nazista, quello di estirparci e sterminarci tutti sistematicamente come delle erbacce. Un giudice talebano, infatti, già in luglio ha dichiarato alla rivista tedesca Bild che per chi commette sodomia la pena prevista è essere lapidato o schiacciato sotto un muro di mattoni. A parte i pochi fortunati che sono riusciti a evacuare nei primissimi giorni sotto la protezione dei contingenti internazionali, per chi è rimasto intrappolato nel Paese la situazione è a dir poco drammatica. Posso citare le vicende di Rameen, 37enne che per sicurezza ha dovuto lasciare il suo ragazzo e la cui vita è diventata un incubo dall’arrivo dei Talebani, Ghulam, studente di 21 anni, chiuso in casa per il terrore di essere scoperto e ucciso, Sayed, 36enne che già rimpiange i tempi in cui poteva incontrare i suoi partner faccia a faccia senza vergognarsi e che ora non ha dubbi sul suo inevitabile destino. Tra i ragazzi che seguo e che mi inviano costantemente messaggi di aggiornamento, c’è anche Ahmadullah, di cui si è occupata recentemente anche la Abc australiana».

Ahmadullah (nome di fantasia) faceva colazione al ristorante con il suo ragazzo, quando ha saputo dell’ingresso in città dei Talebani. Era il 15 agosto. Per precauzione, i due hanno deciso di separarsi e tornare ciascuno a casa propria. Non si sono mai più rivisti. Il giorno stesso, il suo ragazzo è stato individuato, trascinato fuori di casa, picchiato e decapitato in mezzo alla strada. Da allora, Ahmadullah vive come un fuggitivo, affamato e incapace di dormire, nascondendosi in case abbandonate o nei fossati della città. Nonostante, grazie all’aiuto di Nemat, abbia ottenuto i documenti necessari e un biglietto per uscire dal paese, non è mai riuscito a raggiungere l’aeroporto, a causa della stretta sorveglianza. In un caso sono stati gli stessi soldati stranieri a cacciarlo via malamente. Ma in città è difficile scomparire completamente, e in più di una occasione il giovane è stato scovato e costretto a fughe rocambolesche, riportando anche una ferita da accoltellamento a un braccio. Al momento ha trovato rifugio in un villaggio in provincia dove non è conosciuto da nessuno.

«Storie strazianti come questa arrivano continuamente alla mia attenzione. Sono persone disperate che ripongono in me la loro ultima speranza, implorando di non essere abbandonate al loro destino. Insieme a un piccolo gruppo di attivisti stiamo collaborando con il governo americano, tramite i nostri rappresentanti al Congresso, fornendo una lista di individui vulnerabili che necessitano urgentemente un intervento di estrazione dal paese. In alcuni casi è sufficiente provvedere un biglietto aereo e un visto, ma molti di loro non hanno neanche un passaporto, il che complica notevolmente le cose. Non è facile attraversare i confini terrestri, anche perché ai posti di frontiera con l’Uzbekistan e il Tagikistan le pattuglie sparano a vista a chi tenta di uscire illegalmente dal Paese.

Parte del problema è che la comunità internazionale ha dato priorità a giornalisti, traduttori e stretti collaboratori, trascurando la minoranza Lgbt+, forse quella più immediatamente in pericolo. Al momento, la maggior parte delle persone, incluse quelle sulla nostra lista, vengono evacuate per altre motivazioni: solo in 25 casi il governo è intervenuto puramente sulla base delle nostre raccomandazioni. Inoltre pochi paesi, come il Canada, fanno esplicitamente riferimento all’orientamento sessuale come fattore per l’accettazione delle richieste di asilo. Molti altri ritengono che sia un aspetto troppo difficile da verificare, in quanto pertinente alla sfera privata. In ogni caso, la disponibilità all’accoglienza è molto limitata, rispetto alla necessità. Il Canada stesso, all’avanguardia nell’accoglienza, ha posto solo per 20.000 rifugiati afghani, e gli Stati Uniti, nonostante la maggiore responsabilità, per metà di quella cifra. Per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa reale emergenza e raccogliere fondi, stiamo cercando di ottenere la collaborazione delle star della musica. Per ora, ho avuto l’adesione di Britney Spears. Nel frattempo, i contatti alla mia casella di posta elettronica stanno aumentando vertiginosamente, giorno dopo giorno. Ho già ricevuto messaggi da più di 500 persone pronte a rischiare tutto per andarsene, perché considerano la propria identità un’automatica condanna a morte sotto questo regime, e ora sperano di farcela entrando in quella che è diventata una specie di lista di Schindler.

Ecco perché è cruciale che in tutto il mondo, anche da voi in Italia, venga fatta pressione sui rispettivi governi per creare urgentemente dei programmi ad hoc di aiuto alla comunità Lgbt+ afghana, pur nella consapevolezza che purtroppo non si potranno mai salvare tutti».

Intervista di Paolo Ferrarini

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