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Tutela della vita umana e Legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza

La Legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza fu promulgata nel 1978.

Si disse allora che la legalizzazione dell’aborto avrebbe combattuto la piaga degli aborti clandestini, perché la proibizione li alimentava insieme alle infinite sofferenze ed ingiustizie che si perpetravano ai danni delle donne. Si smascherava, insomma, una sorta di ipocrisia che era quella di non voler ammettere alla luce del sole ciò che invece era praticato di nascosto, all’ombra di mammane o di loschi figuri che lucravano nel divieto.

In ottemperanza a queste esigenze, la Legge affermò “il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, insieme con il riconoscimento del valore sociale della maternità”. Permise, quindi, l’interruzione della gravidanza nei primi 90 giorni alla donna “che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito (art. 4)”.

Questa stessa preoccupazione mosse il legislatore ad ammettere la possibilità di interruzione anche oltre i 90 giorni: “ Quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.

Il motivo ideologico della libertà di scelta della donna, ossia il principio di autodeterminazione, che aveva alimentato la campagna abortista (si pensi allo slogan delle femministe: Io sono mia!), restò sullo sfondo, come sottinteso e insieme stemperato in quello della procreazione responsabile. La Legge rappresentò, quindi, nella sua definizione finale, una sorta di compromesso tra diritto della donna e tutela della vita. Lo Stato si proclamava, infatti, garante della procreazione cosciente e responsabile e, nello stesso tempo, del valore sociale della maternità al fine di tutelare la vita umana dal suo inizio. Si mettevano insieme, come dire, i risvolti sociali, psicologici, morali ricadenti sulle singole donne con il principio generale della vita umana dal suo inizio.

Si restava tuttavia nel vago perché non si esplicitava cosa si intendesse per vita umana, quali ne fosse l’inizio, se cioè coincidesse con la nascita o con il concepimento, né se la tutela fosse da intendersi come giuridica o di morale.

Oggi l'aborto è rivendicato sic et simpliciter come un diritto di libertà della donna, mentre il problema della tutela della vita umana è come passato in secondo piano. Diciamo pure che resta come un punto evaso nell’applicazione della Legge. In un arco di tempo ormai più che trentennale, l’aborto legalizzato si è trasformato in una pratica contraccettiva o di controllo delle nascite, in contrasto con quanto la stessa Legge 194 affermava: “L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”. Nel frattempo, le nuove possibilità della medicina hanno ampliato i confini della procreazione con la riproduzione artificiale. Ne è nato il non indifferente problema dei feti in «sovrannumero» e della possibilità di utilizzarli in quanto «materiale» di ricerca.

Oggetto di un articolato dibattito, in particolare relativo all'uso di alcune tecniche come la fecondazione eterologa, la clonazione, la commercializzazione di embrioni, la maternità surrogata, la produzione di embrioni a fini di ricerca o di sperimentazione, la fecondazione assistita è stata regolamentata dalla Legge n. 40 del 2004.

Nel frattempo le diverse posizioni in tema di tutela della vita umana si sono dimostrate inconciliabili. Infatti, se da parte cattolica si è affermata l’inviolabilità della vita (la vita va protetta dal concepimento fino alla morte naturale), da parte laica si è affermata la disponibilità della vita, cui consegue la richiesta di fecondazione artificiale, eutanasia etc..

La questione della tutela della vita umana è rimasta, quindi, come sospesa, per cui si corre il rischio inverso rispetto al 1978, e cioè che ci si nasconda rispetto al problema,volgendosi a guardare da un’altra parte. Per una sorta di tregua, di rassegnata accettazione dell’esistente o di buonismo politicamente corretto si fa finta di non vedere.

Il punto cruciale è lo statuto giuridico dell’embrione.

Come bisogna considerarlo? È titolare di diritti o oggetto di determinazioni altrui che vanno fino al suo utilizzo come materiale di ricerca?

E qui compare una stridente contraddizione fra quanto dettato dalla Legge 194 del 1978 e quanto affermato dalla Legge n. 40 del 2004 contenente "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita". Quest’ultima agli art. 8 e 9 ha previsto Disposizioni a tutela del nascituro, riconoscendone implicitamente la titolarità di diritti. In particolare, a proposito degli embrioni congelati in soprannumero ha ammesso il congelamento solo nel caso in cui l'embrione, già richiesto da una coppia, sarebbe stato impiantato prima dei 5 anni, ossia prima della scadenza (prima della morte) e solo per sopraggiunti problemi di salute della donna.

Il problema, come si vede, sta tutto là e certamente riemergerà.

Ci pare anzi che intorno a questa questione si giocherà una partita importante, una partita di civiltà. Ci sentiamo, pertanto, di condividere quanto ebbe a scrivere il cardinale Ersilio Tonini alcuni anni fa: “e quest'è la grande novità storica: che al centro della grande questione sociale e politica di natura mondiale non sta più lo statuto delle nazioni, ma semplicemente lo statuto dell'embrione. (…) al punto in cui tale sviluppo è giunto, esso dipende interamente dal sapere che cos'è l'uomo al suo principio, nel suo germe”

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.38) 22 maggio 2013 10:15

    L’aborto è un’operazione chirurgica, non la soppressione di una vita.
    Che il feto sia una persona è una superstizione religiosa.

    E poi perchè sempre uomini a parlarne?
    Avete l’utero? Potete rimanere incinti????
    No?
    E allora perchè blaterare di qualcosa a voi completamente sconosciuto?

    • Di (---.---.---.150) 22 maggio 2013 11:29

      per la miseria.... con questa logica "stringente" una ammalata dovrà essere curata solo da un’altra ammalata della stessa malattia dato che quelli sani che ne sanno della malattia?

    • Di (---.---.---.38) 22 maggio 2013 15:04

      La gravidanza non è una malattia.
      Però si, per quel che riguarda gravidanza e parto, sarebbe opportuno che se ne occupassero solo medici donna.
      Durante la mia prima gravidanza per un po’ sono andata da un ginecologo (uomo).
      Nonostante esercitasse da almeno 10 anni, non aveva idea di quello che stava facendo, ti assicuro.

      E in generale, vorrei che gli uomini non si occupassero di una cosa che non li riguarda.

    • Di (---.---.---.240) 22 maggio 2013 16:24

      Un piccolo chiarimento: stiamo parlando di una legge. 

      Chi dovrebbe occuparsene?
      I legislatori?

      Se l’aborto non è soppressione di una vita, si provi a portare la gravidanza e si vedrà a quale vitale sorpresa ci si espone!
      Le superstizione religiosa non si sviluppa nell’utero e non ha occhi, orecchi, cuore,per cui non sarà mai un bambino.

      Per quanto mi riguarda, non ho l’utero, ma il cervello (nella norma) ce l’ho.


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