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Turchia e Israele, fra liti geopolitiche e questioni interne

Il grande tessitore, e mediatore, della politica turca fa sul serio. Dopo aver pazientemente atteso per mesi le scuse ufficiali di Netanyahu per l’assalto omicida del 2010 Mavi Marmara il Ministro degli esteri turco Devutoglu ha deciso d’interrompere i rapporti con Israele. Perciò, via gli ambasciatori da Tel Aviv ma via anche le collaborazioni militari grazie a cui gli F16 con la Stella di David s’addestravano sui cieli dell’Anatolia e via forse parte del businness fra i due Paesi. 

La mossa era nell’aria per i ripetuti richiami rivolti tramite Baan Ki moon alle Nazioni Unite perché Israele compisse quell’atto considerato dovuto. L’arroganza e l’irrispettosità verso le regole che distingue l’Esecutivo Netanyahu convincevano quest’ultimo che pure stavolta tutto sarebbe rimasto invariato. Invece no. La pubblicazione del rapporto Palmer dell’Onu, pur critico verso la Flotilla opposta al “legittimo blocco navale su Gaza”, censurava la repressione e l’uccisione dei nove attivisti turchi. Così Davutoglu ha mantenuto la parola mettendo alle strette un alleato che ormai odora di avversario. Una scelta dura che fa uscire Ankara dal gioco degli equilibri di cui il responsabile esteri è maestro. Nelle ultime due settimane la Turchia dello “zero problemi coi vicini” ha forzato la mano anche verso l’alleata Siria di Assad, quasi indifendibile per la stessa Russia nonostante gli interessi strategico-economici che Mosca ha nell’area. 

Viste le recenti tensioni con l’Egitto nel Sinai e i timori che un possibile post Assan potrebbe creare nel Golan Israele registra una delle situazioni d’isolamento internazionale che non conosceva dai tempi della Guerra del Kippur. Perciò c’è chi teme un inasprirsi della sua mai sopita logica guerrafondaia che ha trovato coperture statunitensi anche nell’avventura dell’invasione del Libano del 2006 o per il crimine di Piombo Fuso. L’alibi del nemico esterno che compatta ogni frustrazione è sempre valido e Tel Aviv proverebbe con nuovi percorsi di guerra a uscire dall’angolo in cui si rinchiude da sé. Come la Libia insegna, le Democrazie Occidentali assecondano con piacere questa via. In realtà all’establishment israeliano servirebbe altro: rispondere alle tensioni giovanili con cui gli indignatos di casa, che non possono metter su casa perché l’economia delle colonie assieme all’Idf sono il collettore di troppe risorse, chiedono novità. Ma non avviene. I dibattiti in cui è impegnata da almeno tre settimane anche l’intellighenzia progressista ebraica bolla come esistenziale tale protesta e la tiene lontana da correlazioni che immediatamente legano isociale e politico nazionale e internazionale. Secondo voci dei protagonisti le carenze di fondi per il welfare e la critica del sistema delle colonie non possono che risalire a scelte politiche di più d’una leadership.

Ma nello scontro a distanza fra le due nazioni anche le scelte internazionali turche possono attualmente servire a distogliere grosse contraddizioni interne. La questione curda e lo scontro con una parte delle gerarchie militari hanno impegnato in una caldissima estate il premier Erdogan. Uscito stravincitore dalle elezioni di giugno, non però al punto di avere quella maggioranza parlamentare assoluta per votarsi da sé la nuova Costituzione dovrà nei prossimi mesi discutere coi repubblicani (CHP) e coi tutt’altro che estinti nazionalisti (MHP). Mentre paradossalmente proprio col partito curdo (BDP) con cui aveva cercato distensioni elettorali sono ripartite le tensioni. E naturalmente coi guerriglieri del PKK che hanno rotto la tregua preelettorale, uccidendo fra luglio e agosto ben 40 militari. In verità non senza preannuncio. Il motivo è il mancato inserimento ad opera del governo di alcuni eletti nelle liste del BDP che sono accusati (loro negano) di legami col PKK, il processo a 151 imputati curdi incarcerati dal 2009 e incriminati di azioni terroristiche, la richiesta di orientare in senso multietnico la riforma costituzionale programmata. Così lo scontro a bassa intensità degli ultimi tre anni, diventato un vanto delle aperture erdoganiane è rischizzato a livelli afghani. Le imboscate omicide di Silvan e Hakkari sono degne dei più rodati taliban.

Alle armi della repressione militare di cui sono rimaste vittime 100 presunti guerriglieri curdi e una decina di civili nell’area montuosa di Kandil, sono seguite quelle civili della piazza nazionalista che a Elazig, Malatya, Bursa - e a Istanbul e nella capitale - hanno messo a ferro e fuoco le sedi del BDP. Il conflitto politico è stato gestito in prima fila dall’MHP e da quei militanti del partito repubblicano che verso i curdi prospettano solo soluzioni draconiane. Erdogan s’è trovato schiacciato fra la necessità di difendere la nazione turca, di supportare i militari con cui aveva in corso un conflitto di comando, di tenere in equilibrio quei crediti verso una parte della comunità curda che in base alle sue promesse aveva direzionato il voto di giugno non sul BDP ma sul partito erdoganiano. A questi intenti si sono riferite componenti della società civile curda presenti alla marcia delle Madri per la pace di fine agosto. Rispondere a loro, alle richieste del BDP e probabilmente trattare col PKK sarà una necessità cui nessuna mossa estera di Davuloglu può comunque costituire diversivo.

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