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Turchia, controllo sulla disinformazione o censura?

Se gli strascichi della strage mineraria nella località sul Mar Nero risultano già archiviati nella stessa informazione indipendente che sopravvive in Turchia, non è solo per il minore impatto sull’opinione pubblica del numero delle vittime rispetto al più tragico lutto minerario del Paese, quello di Soma.

Certo, i cadaveri fanno sempre effetto e i 41 dei giorni scorsi rispetto ai 301 del 2014, a parità di dolore, fanno piangere meno concittadini. Ma all’epoca a tenere alta l’attenzione, a svelare i risvolti oscuri, le colpe d’imprenditori senza scrupoli, le connivenze governative contribuiva il lavoro di decine di giornalisti estranei alla subalternità e all’acquiescenza col potere, statale e privato. Testate soppresse oppure rese inoffensive dai progressivi interventi del partito di maggioranza e dei suoi esecutivi, due nomi fra tanti - Zaman e Çumhuriyet - per non parlare della politicizzata Özgur Gündem tacciata di terrorismo filo kurdo. A peggiorare la situazione giorni addietro il Meclisi ha approvato la proposta di legge dell’Adalet ve Kalkınma Partisi sulla diffusione di notizie ritenute false, divulgate sui social network e tramite l’informazione online. A poco sono serviti gesti clamorosi come quello del deputato del partito repubblicano Erbay il quale, durante un intervento parlamentare, ha estrapolato dalla borsa un martello con cui ha distrutto il suo smartphone, volendo ribadire l’impossibilità di essere normali e la pretestuosità con cui l’organo legislativo vara una misura più di censura che di lotta alla disinformazione. La maggioranza si rifà alla questione che affligge tutte le democrazie del mondo: il rischio di diffusione di fake news. Per combatterle non s’affida alla professionale verifica delle notizie che ciascun giornalista deve realizzare, né al libero discernimento del cittadino, indica parametri che non possono essere tollerati dallo Stato: la minaccia al benessere pubblico e all’interesse nazionale, la volontà di produrre effetti negativi sulla collettività.

Quindi offre ai giudici la possibilità di agire immediatamente sui potenziali trasgressori con incarcerazione (da uno a tre anni) e sanzioni. Fra le mire subdole della norma dall’ennesimo sapore repressivo, evidenziate da addetti ai lavori e osservatori internazionali, c’è l’induzione all’autocensura. Una sorta di freno che operatori e chiunque voglia esprimersi sui social, dovrà imporsi. Non per seguire i princìpi deontologici che il giornalismo deve sempre darsi e neppure per applicare quel buon senso, buon gusto, buona educazione degni di qualsiasi intervento scritto o parlato, ma solo per il timore di finire triturati da accuse che portano diritto in galera, in faccia a qualsivoglia libertà d’espressione, ovviamente esente da oltraggio, calunnia, diffamazione. A decidere sulla veridicità o falsità dell’affermazione il Parlamento turco delega una magistratura da tempo posta sotto tutela dello stesso esecutivo e dell’onnipresente presidente Erdoğan. Nella migliore delle ipotesi il giornalista rischia d’essere depennato dall’albo professionale e il cittadino sanzionato con ignominia. Ci rimette quella possibilità di conoscenza che, pur non assoluta e garantita ovunque nel mondo, in molti Paesi trova ostacoli d’ogni sorta. La Turchia, che conta oltre 250 cronisti reclusi, ha conosciuto nell’ultimo decennio una considerevole regressione informativa e di libertà d’opinione. Nel ghetto in cui è circoscritta la redazione di Çumhuriyet (il cui ex caporedattore Dündar, condannato a 27 anni per spionaggio, è riparato a Berlino) questo scrive sulla legge: “Ha creato una nuova definizione di reato come "diffondere pubblicamente informazioni ingannevoli al pubblico" e ha introdotto un'area di applicazione in cui le critiche sui social media possono trasformarsi in reati con il pretesto di "disinformazione”… È chiaro che la legge sulla censura spingerà la Repubblica, che ha adottato l'obiettivo della civiltà contemporanea, nel pozzo oscuro della tirannia di Abdülhamit”. Sì, sarà difficile sapere di più sul disastro di Amasra, come è sempre più difficile conoscere molto, molto altro.

Enrico Campofreda

 

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