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Traiettorie sociologiche. Il mito della flessibilità e la sua caduta

Traiettorie sociologiche. Il mito della flessibilità e la sua caduta

Parliamo di flessibilità. Lo spunto proviene dal bel libro di Fabio Corbisiero, Antonello Scialdone e Antonio Tursilli, Lavoro flessibile e forme contrattuali non standard nel Terzo settore, che pur riferendosi particolarmente a problematiche inerenti il settore non-profit, svolge un’attenta e acuta analisi di un concetto in continua evoluzione.
 
L’immagine che ci deriva da questo volume è quella di una flessibilità-metafora, un “nome” dato a realtà di ben più complessa identificazione.
 
Richard Sennett, nel suo saggio del 1998 L’uomo flessibile, ricerca l’origine dell’uso di questa categoria di pensiero nella speculazione filosofica sul lavoro. La flessibilità è esaltata da Adam Smith, nell’opera del quale essa è decisamente contrapposta alla routine, che è invece esaltata da Diderot nell’Enciclopedia come fondamento della dignità del lavoro. Il lavoratore flessibile di Smith, inoltre, che coincide in sostanza con il commerciante in netta contrapposizione all’operaio, si caratterizza per una serie di qualità morali, prima su tutte la sympathy: la capacità di immedesimarsi nei bisogni degli altri.
 
Se ci proponiamo di ricercare la radice concettuale del termine al di fuori della logica socioeconomica adottata da Sennett, notiamo che una prima attestazione di un “mito” della flessibilità è già nelle favole di Esopo (V a.C.). Prendiamo in considerazione la favola dell’olivo e della canna (n. 143).
 
La canna e l’olivo discutevano di resistenza, di forza e di sicurezza, e l’olivo rinfacciava alla canna di essere debole e facile a piegarsi a tutti i venti. La canna, silenziosa, non rispondeva. Non passò molto tempo, e si levò una violenta bufera. La canna per quanto scossa e piegata dalle raffiche, ne uscì salva senza difficoltà; ma l’olivo, che cercava di resistere ai venti, fu spezzato dalla loro violenza. La favola mostra come chi non si oppone alle circostanze e alle persone più forti di lui sta meglio di chi contende con i potenti.
 
Come spesso accade, il racconto ha un “doppio” nella tradizione esopica, mirato a dichiarare l’esatto contrario: la favola della quercia e delle canne.
 
Il vento sradica una quercia e la scaglia nel fiume. Questa, mentre scorre, domanda a delle canne: “Perché voi, deboli e sottili, non siete sradicate dai violenti venti?” Quelle rispondono: “Voi combattete contro i venti e siete sradicate. Noi, invece, piegandoci al vento non abbiamo alcun danno.” E la quercia dice: “Ma preferisco la morte a una vita misera; io infatti combattendo muoio libera, voi invece cedendo ad ogni forza e ad ogni violenza avete salva la vita codardamente.”
 
In entrambe la favole non compare la parola “flessibilità”; compaiono invece i suoi opposti “resistenza”, “forza”, “sicurezza” e gli aggettivi “debole”, “sottile” usati in senso dispregiativo. In tutti e due i testi, inoltre - anche se in misura diversa - la “flessibilità” è associata alla codardia, in contrapposizione alla tenacia e alla stabilità.
 
Il mito del debole che la spunta infine sul forte, ravvisabile altrove in Esopo, prevale nella letteratura favolistica successiva: in La Fontaine, I, 22, che rielabora Esopo, compare finalmente la parola chiave: piegarsi.
 
Disse la Quercia ad una Canna un giorno:
- Infelice nel mondo è il tuo destino:
non ti si posa addosso un uccellino,
né un soffio d’aria ti svolazza intorno,
che tu non abbia ad abbassar la testa. (...) -
- La tua pietà capisco che deriva
da buon cuore, - rispose a lei la Canna. -
Il vento che mi affanna
mi può piegar, non farmi troppo male,
ciò che non sempre anche alle querce arriva.
Tu sei forte, ma chi fino a dimani
può garantirti il legno della schiena? -
E detto questo appena,
il più forte scoppiò degli uragani,
come il polo non soffia mai l’uguale.
La molle Canna piegasi,
e resiste la Quercia anche ai più forti
colpi del vento, per un po’, ma infine
sradica il vento il tronco,
che mandava le foglie al ciel vicine,
e le barbe nel Regno imo dei morti.
 
La cedevolezza della canna, che fa sì che questa si salvi infine dall’uragano, è virtù tutta positiva nell’autore del Seicento francese. Siamo quasi alle soglie della prima Rivoluzione industriale, e ben oltre la prima attestazione quattrocentesca dell’inglese flexibility che, come ricorda Sennett, caratterizzava originariamente proprio una capacità degli alberi (Sennett , cit., pag. 45).
 
Il “mi piego ma non mi spezzo” è divenuto proverbiale, come sinonimo di versatilità, capacità di adattamento, disponibilità al cambiamento: paradossalmente, se pensiamo ai giunchi inclini al compromesso della prima favola esopica presa in esame, o a quelli apertamente vigliacchi della seconda, flessibilità diventa sinonimo di libertà.
 
La favola della quercia e delle canne, inoltre, si riscontra in un senso tutto positivo per queste ultime in varie tradizioni orientali.
 
Restando nella nostra letteratura, la flessibilità diventa una caratteristica lampante dell’eroe del romanzo ottocentesco. La capacità di adattarsi a situazioni lavorative disparate è uno dei tratti più vistosi dei personaggi di Balzac, ma è anche il segno distintivo del Bel-Ami di Maupassant, definito non a caso “romanzo di una carriera”.
Il “mito” della flessibilità, rintracciato qui sommariamente a livello letterario, vince oggi a livello pratico. Nell’ultimo ventennio, in particolare con l’avvento delle tecnologie informatiche, il capitalismo per così dire tradizionale, basato sul lavoro abitudinario e routiniero, è stato sostituito da un “nuovo capitalismo”, che fa della flessibilità la sua bandiera. Di questo capitalismo Sennett cerca di rintracciare le conseguenze sugli uomini, sui lavoratori, a livello della loro vita personale.
Il sociologo rileva innanzitutto che la struttura flessibile del lavoro non è più – come quella del “vecchio” capitalismo – piramidale, ma reticolare: non si è semplificata, dunque, ma si è ulteriormente complicata. Il controllo dell’intero sistema, che prima proveniva dall’alto, era quantomeno identificabile: ora invece è intangibile, invisibile, privo di volto. Sennett riscontra sul piano dell’etica l’inadeguatezza di questo sistema. L’individuo “flessibile” è libero, ma amorale; antepone la propria autonomia all’appartenenza collettiva, la propria autorealizzazione al bene comune. Il figlio del nuovo capitalismo è dunque irrimediabilmente solo.
 
Traendo spunto anche da queste considerazioni, che lo studioso americano pubblicava nel 1999, il volume di Corbisiero, Scialdone e Tursilli interroga la società italiana di oggi, puntando i riflettori sulle debolezze del lavoro flessibile: mancanza di sicurezza generata dalla fluidità dei legami, impossibilità di progettare il proprio futuro al di là della scadenza del proprio contratto a tempo determinato, instabilità che si ripercuote emotivamente sull’individuo, penalizzandolo ben oltre il mero ambito lavorativo. Flessibilità – per i nostri autori – è dunque una metafora, o meglio, un eufemismo usato nel nuovo capitalismo per evitare termini più duri. Precarietà. Provvisorietà. Incertezza. Instabilità.
 
Impossibile non pensare al film del 2008 di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti, che affonda le mani nella piaga del precariato, in particolare tra i giovani dopo la fine del loro percorso universitario.
 
Alcune categorie, come evidenziano tanto lo studio di Corbisiero, Scialdone e Tursillo quanto la commedia di Virzì, sono particolarmente penalizzate dal modello “flessibile”: le donne, soprattutto, per le quali avere dei figli diventa un vincolo. Ma il sistema svantaggia anche i lavoratori non più giovani, formatisi al vecchio modello del “lavoro stabile”, o con un deficit di risorse di qualunque tipo: in un’unica, generica parola, i deboli.
 
Unica possibilità di uscire vincitori da questo gioco folle, il rischio. E rischiando, come è necessario nella società descritta da Ulrich Beck nel suo La società del rischio, non c’è “narrazione”, non c’è prevedibilità delle conseguenze. Gli eventi passati non condizionano quelli futuri. Tutto è puramente casuale. Non c’è esperienza, non si impara niente. “O essere maestri nell’arte di vivere, o cadere”, scrive Beck, citato da Corbisiero nel suo capitolo introduttivo.
Questa la sfida di oggi ai lavoratori, questa una nostra possibile, provvisoria, (flessibile?) conclusione: conservare uno spazio di eticità tra il lavoro, che ne è privo, e l’individuo - che ne ha bisogno.
 
 
Letture
 
Corbisiero F., Scialdone A., Tursilli A., Lavoro flessibile e forme contrattuali non standard nel Terzo settore, Franco Angeli, Milano, 2009.
Sennett R., L’uomo flessibile – Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, 1999.
Beck U., La società del rischio, Carocci, Roma, 2000.
Esopo, Favole, BUR, Milano, 1976.
Lafontaine J., BUR, Milano, 1980.
 
 
Visioni
 
Virzì P., Tutta la vita davanti, Italia, 2008.
 
 
Bio dell’autrice: ha ventidue anni e vive a Napoli, dove si sta specializzando in Filologia Classica all’Università Federico II. Nel 2006 è stata finalista del premio Campiello Giovani. Ha pubblicato racconti in diverse antologie. Si interessa principalmente di letteratura, editoria e radio.

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Traiettorie Sociologiche

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Ci interessano gli intrecci, i luoghi dove si incrociano le traiettorie della vita quotidiana con quelle dell’immaginario, o – il che è lo stesso – dove le produzioni estetiche incrociano quelle critiche. Perché, se spesso i prodotti dell’arte – film, racconti, immagini – presentano situazioni e figure che valgono più di un saggio di sociologia, così la ricerca e i suoi frutti non sono estranei alle (...)

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