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Tour de France 2024: Pogacar senza limiti!

Lo sloveno Tadej Pogacar, dopo due secondi posti consecutivi, ritorna in auge conquistando alla grande il suo terzo Tour.

Dopo 26 anni dalla celebre impresa compiuta da Marco Pantani nel 1998, viene centrata nuovamente l'accoppiata leggendaria Giro-Tour riuscita in passato soltanto ad alcuni mostri sacri della bicicletta come Fausto Coppi o Eddy Merckx.

Sino a pochi giorni fa la corrente di pensiero dominante del terzo millennio riteneva che nessun corridore sarebbe più stato in grado di centrare la difficilissima doppietta stagionale Giro d'Italia & Tour de France, per un concetto che negli anni era andato via via consolidandosi. Un magico bis che nel secolo scorso era riuscito soltanto ad alcuni fuoriclasse del pedale, da F. Coppi (il primo a riuscirvi nel 1949, per poi ripetersi nel '52) al belga E. Merckx (capace di farlo ben 3 volte: 1970, '72 e '74), passando per i francesi J. Anquetil (nel 1964) e B. Hinault (2 volte, 1982 e '85), per l'irlandese S. Roche (1987, quasi una sorta d'intruso nel circolo dei campionissimi) e lo spagnolo M. Indurain (2 volte, 1992 e '93), sino a giungere al compianto M. Pantani, l'ultimo a realizzare la storica accoppiata vincente, nell'anno di grazia 1998.

UN'IMPRESA ANACRONISTICA

Imprese più che altro appartenenti ad altre epoche, ad un altro ciclismo, e che nell'era contemporanea non avrebbero dovuto trovare repliche. In effetti lo sport delle due ruote nel frattempo era decisamente cambiato, e in un'epoca di perfezionismo esasperato, in cui al talento occorre necessariamente affiancare una maniacale preparazione atletica (senza trascurare nemmeno i dettagli), in cui ogni piccola improvvisazione non riesce più a trovare nessuna ospitalità, era impensabile pretendere di rimanere in condizioni sfavillanti per più di una grande corsa a tappe. Perciò per ogni corridore era pressoché obbligatorio scegliersi un determinato spazio, non troppo esteso, nel calendario, in cui distendere la propria stagione agonistica, circoscrivendo il periodo in cui la forma avrebbe dovuto toccare il picco e in cui ci si sarebbe dovuti concentrare maggiormente per centrare gli obiettivi prefissati. Ed in genere i veri campioni optavano per il mese di luglio, il mese più “caldo” dell'anno, e non solo in senso climatico, ma soprattutto in senso sportivo, essendo quello in cui si corre il Tour de France, la gara delle gare. Quella che vale una stagione. E spesso un'intera carriera.

A regolare l'intera preparazione in funzione esclusiva della prestigiosissima Corsa Gialla erano stati big del calibro di L. Armstrong (poi caduto in disgrazia per le note vicende legate al doping), C. Sastre, A. Schleck, C. Evans, N. Quintana, B. Wiggins, R. Bardet, C. Froome, sino ai più attuali J. Vingegaard ed A. Yates. Questi corridori appena citati non hanno quasi mai disputato Giro e Tour nello stesso anno (se non in rare circostanze, magari quando cercavano di ritrovare la condizione perduta per vicissitudini varie), ritenendo proibitivo aspirare a rimanere col picco di forma per un lasso di tempo talmente prolungato, comprendente due corse a tappe così lunghe e debilitanti. Eh già, le imprese epiche del Novecento apparivano quantomai lontane ed irripetibili, figlie invecchiate dei tempi andati.

UN TRIONFO D'ALTRI TEMPI

Il nuovo millennio imponeva delle scelte rigorose, nette, e delle rinunce dolorose. O Giro o Tour, da questo bivio non ci si poteva più allontanare. Salvo correre il serio rischio di vedersi triturare dalla propria presunzione. O dalla beata ingenuità. Quella stessa ingenuità che si sarà visto affibbiare lo sloveno Tadej Pogacar nell'istante in cui ha rivelato al Mondo di avere l'intenzione di tentare il colpaccio del secolo, ovvero rompere quello che ormai da decenni era diventato un vero tabù. Vincere Giro e Tour nello stesso anno. Come ai bei tempi. Ma la sua non era mica ingenuità. La sua, piuttosto, era una cosciente consapevolezza dei propri mezzi. Campione dalle qualità debordanti, già vincitore di 2 Tour e tanto altro, il poliedrico corridore della “UAE Emirates” era in effetti il solo fra tanti che avrebbe potuto provarci. Pur fra lo scetticismo generale di molti esperti, il campione sloveno possedeva le caratteristiche atletiche e mentali idonee per tentare l'epica impresa. Resistenza, vitalità, fame, spavalderia, tutti questi fattori contribuivano a forgiare le sembianze di un'idea che ad altri sarebbe apparsa ai limiti dell'impossibile, ma che per lui assumeva i connotati di un qualcosa di fattibile.

Al Giro d'Italia concluso poche settimane fa, vinto alla grande, si era mostrato in tutto il suo splendore, confermando di essere l'uomo giusto per provare la scalata del monte dei sogni proibiti. Tuttavia in parecchi si chiedevano, non a torto, se sarebbe riuscito a tenere certi ritmi sfiancanti anche al Tour o se invece sarebbe rimasto appiedato anzitempo dalla fatica. Forse “Poga” stava chiedendo troppo a sé stesso ed al suo fisico? Forse le sue erano pretese ai limiti del vaneggiamento? In tanti giuravano che sarebbe arrivato in Francia già cotto, pronto per essere mangiato dagli affamati avversari. Nulla di più sbagliato. Ad essere affamato, semmai, è stato proprio il prodigio di Komenda. E ad essere sbranati sono stati i suoi presunti rivali. Altro che fatiche da smaltire, altro che condizione in fase discendente... Tadej in questa 111^ edizione della Gran Boucle ha stupito tutti. Forse persino sé stesso. Il suo è stato un trionfo completo, totale, assoluto. Con fare dispotico ha prevalso agevolmente sulla concorrenza, assoggettandola impietosamente. Ha conquistato in scioltezza tutte le tappe di montagna più dure, ben 5 (fra i corridori di alta classifica solamente G. Bartali, 7 nel 1948, ed E. Merckx, 6 nel 1974, si erano aggiudicati un numero maggiore di tappe in linea); ha indossato la maglia gialla per 19 giorni sui 21 disponibili (quasi un record per il Dopoguerra), mantenendosi sempre saldamente in vetta, senza accusare la minima flessione; ha rifilato ai “nemici” distacchi colossali, stravincendo l'eterna sfida col campione uscente, il danese J. Vingegaard (che lo aveva surclassato nelle ultime due edizioni). Insomma, la sua non è stata una conquista. È stata un'apoteosi straordinaria. È stata la consacrazione di un campione vicinissimo all'immortalità. Di più, è stata l'esaltazione del ciclismo. È stata la dimostrazione che anche oggi certe imprese sono ancora possibili. In fondo basta crederci fortemente. Basta provarci con tutte le proprie forze. Basta volerlo, senza se e senza ma. Basta essere un fuoriclasse formidabile. Basta chiamarsi Tadej Pogacar.

Al momento d'oro del campione sloveno si contrappone quello oscuro del ciclismo italiano. È dal 2019 che non vinciamo una tappa (l'ultimo successo è targato V. Nibali). È dal 2014 che non saliamo sul podio conclusivo (quando trionfò proprio Nibali, sempre lui...). È da troppo tempo che siamo spariti dai radar delle aspirazioni sibaritiche. Quella che sino a pochi anni orsono pareva una fase transitoria di stagnazione negativa si sta ormai trasformando in una sgradevole caratteristica, cronica, definitiva, indirizzata a raffigurare il nuovo infausto corso del pedale italico. Destinato a quanto pare a condurci nell'oblio.

Foto Wikimedia

 

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