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Stazione di Pechino Ovest: espressioni universali di un viaggio in treno | Diario di viaggio

Sono alla stazione ferroviaria Ovest di Pechino.

Quel che può evocare per un occidentale la parola “stazione”, è ben differente dalla realtà cinese; per il nostro immaginario, si avvicinerebbe molto più a un aeroporto, per le dimensioni, per l’organizzazione, per i rigorosi controlli.

Larghi spazi, altissimi ambienti.

Ogni treno ha la sua “sala d’aspetto” che da sola, per imponenza, potrebbe essere una nostra stazione…
Proprio qui attendo, nella sala N.5, il treno che con 18 ore di viaggio mi farà realizzare il primo grande spostamento per Wudangshan.

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Quando viaggiamo, spesso la lingua crea una barriera, a ricordarci la distanza, la differenza culturale che si contrappone tra noi e le persone di luoghi lontani; proprio ora, sto gettando due panini sui quali il commesso aveva risposto un incerto “No” alla mia domanda “Is it spicy?”… 
L’unico acquisto in Cina effettuato in un fast food americano, simbolo della globalizzazione planetaria, ha comportato le stesse problematiche del procurarsi un pasto locale. Non se la prenda troppo il sorridente pagliaccio; le inquietanti semplificazioni che il sogno del conformismo occidentale ci impone (per fortuna), non sono così nette.

Procacciare cibo, probabilmente, è l’esperienza che l’incomprensione linguistica rende più difficile e, allo stesso tempo, generatore di storie divertenti da riportare a casa.

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Sono in largo anticipo, e non sono il solo. Attorno a me, chi riposa, chi dorme, chi legge, chi mangia. Chi fa la fila per l’immancabile acqua bollente, più indispensabile di quella a temperatura ambiente, utile per gli spaghetti secchi istantanei, consumati ovunque e a qualunque ora. Senza dubbio comodi…

L’odore di brodo al “sapore” di pollo, di manzo, s’impone su quello dei prodotti chimici utilizzati per la pulizia della stazione.

Messaggi continui dagli altoparlanti in questa lingua, tanto musicale quanto incomprensibile.
Non comprendo… ma le tante persone sedute, sui sedili e sul pavimento, cominciano ad avvicinarsi al tornello di controllo.
Seguendo la più basilare delle regole psicologiche e sociali, mi unisco alla folla.

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Il concetto di fila in Cina può sconcertare perfino un italiano, che di file non è così avvezzo. E’ più corretto “massa informe”, che in blocco si dirige verso la meta, museo, biglietteria o tornello che sia.
Inizialmente spiazzante, perfino irritante, dato che la nostra mente codifica quel “movimento” che porta avanti chi è indietro, indietro chi è avanti e di nuovo viceversa, come una “furbata”, il rubare il mio posto, la mia posizione guadagnata.
Poi, osservando… ci si accorge che questa folla, in realtà, ha il suo ordine, la sua ragione, la sua coscienza, e al tuo sguardo infastidito, rispondono altrettanti sguardi che dicono “perché ti arrabbi? Prima o dopo… entriamo tutti…”.
E così, grazie a quelle espressioni, un’altra barriera cade e ci si lascia trascinare in questo moto convettivo umano.

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I viaggiatori che mi faranno compagnia durante questo spostamento in treno, stanno tornando nella loro terra, i monti Wudang, dopo aver passato una breve vacanza nella capitale oppure una visita ai parenti che si sono trasferiti per lavoro. La natura di queste umili persone è suggerita dai bagagli che ingombrantemente trasportano.

Poche valige, ma sacchi, sacchi, tanti sacchi, pieni di frutta, verdura, vestiti, riso…
La montagna sacra taoista, al centro della Cina, è un territorio famoso per i suoi templi e per il kung fu, ma anche per le sconfinate piantagioni di tè; posti semplici, montani, lontani dalla Cina titanica delle metropoli.


Per questo, ingiustamente non considerata dal turismo di massa. Forse, meglio così…

Celermente, più che nelle nordiche file, la folla si riduce.

I binari si trovano al di sotto della stazione; ad attenderci, il nostro treno K261. Scendo seguito dalla mia valigia, che porta tutti i segni dei viaggi passati con malridotta dignità, e, con un po’ di difficolta, eseguo uno slalom tra gli immancabili sacchi di vestiario e ortaggi sconosciuti.
Individuo la mia carrozza, la numero 13 , confermata dal cenno di una solerte donna addetta ai controlli, perentoria e autoritaria senza essere maleducata (in Cina, comandano le donne, informazione utile per chi vuole partire… Uomo avvisato…).

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Ed ecco il mio “hard sleeper” numero 19, il “letto duro”, categoria che non si differenzia dal “soft sleeper” per la morbidezza, ma per la “privacy” che si avrà durante il viaggio e dal numero di letti nello stesso vano; nel soft gruppi da quattro con porta annessa, nell’hard gruppi da sei che danno direttamente sul corridoio. Quest’ultimo meno “privato”, ma il migliore per osservare ed immergersi in questi lunghi viaggi, parte integrante della vita di ogni comune cinese dell’entroterra.

Ma su quello che dovrebbe essere il mio letto, trovo un uomo ad occuparlo, mentre sul letto di fronte, quella che è la sua famiglia; una giovane e dolce ragazza con un dente un po’ rovinato come moglie e i due bambini, un maschio e una femmina, la più grande di 6, forse 7 anni. Raccolti tra loro, parlano.
Mostro il mio biglietto e faccio capire che quel posto, è mio.
Con un cenno di scuse, dice qualcos’altro ai suoi ed esce a fumare una sigaretta davanti al nostro finestrino.
Mentre cerco di capire come sistemarmi al meglio tra valigia, zaino e altri bagagli, osservo i miei dirimpettai, dato che il mio letto è quello più in basso dei 3 piani: i bambini un po’ eccitati per il viaggio e sguardo fisso verso il finestrino; la giovane madre invece, nel suo prendersi cura dei bambini, tenta di rendere meno visibile l’espressione del volto che rivela il suo stato d’animo, tanto giovane quanto mesto, rivolto anche lui verso l’esterno.

Il treno parte.

Quella che sembrava una semplice uscita per l’ultima sigaretta prima della partenza del treno, rivela un padre che saluta la sua famiglia in ritorno nei luoghi d’origine, mentre lui rimane li, nella capitale, senza meno per lavoro.

Senza una parola, impossibile per la barriera culturale e linguistica che ci divide, l’empatica mestizia di quel volto mi aveva già suggerito tutto. Ancor di più, i suoi sentimenti.

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Mentre rifletto sul “mio” letto, inizia lo spettacolo, unico e umano, della preparazione della cena nei treni a lunga percorrenza cinesi: gli immancabili noodles istantanei, che la mamma di fronte a me arricchisce con con l’aggiunta di carne simile ai nostri wurstel per i suoi figli; verdure e frutti di ogni tipo, sempre a maggioranza sconosciuti ai miei occidentali occhi; riso condito in mille modi; ravioli, insostituibili, alcuni con ancora il cestello del vapore.
Tutto diviene di tutti. Nessuno mangia se non ha chiesto alla persona accanto se ne gradisce.
Questo, viene chiesto anche a me, strano viaggiatore su un treno tutt’altro che turistico.

Le barriere sono costruzioni umane. Millenarie, antiche, radicate, volute e subdolamente enfatizzate, ma pur sempre costruzioni. Mattone o grammatica, poco cambia.
La barriera che la mia cultura, il mio retaggio, ha creato in ogni occidentale e anche in me, persona che in tutto e per tutto tenta ogni giorno di abbattere determinato concetto, è quell’infantilità del “mio”, della “proprietà”, del “ho pagato”, che latente, in piccole cose, a volte riesce a riaffiorare.

Ma a ricordarci che a prescindere dalla latitudine che ha accompagnato la nostra nascita, che le barriere sono solo vestiti cuciti da altri e messi addosso ad ognuno di noi, rimarranno sempre le espressioni universali, per mostrarci ancora cosa c’è al di sotto, in tutti, in ognuno; emozioni.

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La notte arriva insieme a mille paesaggi, naturalisticamente diversi, industrialmente simili. Nel corridoio, chi chiacchiera, chi gioca a Mah Jong, chi legge, bambini che corrono e madri che richiamano.

Le luci si spengono; qualcuno più preparato ha la propria lucina da lettura, io no.

Passa… ed è mattino. La fila per l’acqua bollente è già viva, le espressioni universali di nuovo presenti; stavolta, nel volto di un bambino per metà nascosto dall’infantile vergogna e per metà scoperto dalla curiosità di riuscire a vedere, un po’ più da vicino, quell’alieno occidentale sdraiato su un lettino duro, ma non troppo, di un treno cinese a lunga percorrenza…

Questo articolo è stato pubblicato qui

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