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Spostare l’intelligenza artificiale dal cervello al corpo

È questa la proposta di Cecilia Laschi, esperta di bio-robotica attualmente in forze all’Università di Singapore. L’esperta invita a ripartire dai bisogni, mettendo l’essere umano al centro della progettazione tecnologica e non viceversa. “I robot, a differenza dei computer, hanno il movimento. Usiamolo”.

di Michela Perrone

 

“Tutti mi chiedono quale sarà il ruolo dei robot in futuro. Io credo che dovremmo iniziare a pensare a quale sarà quello delle persone”. Cecilia Laschi, ordinario di Bioingegneria industriale all’Istituto di Biorobotica del Sant’Anna di Pisa e adesso Full Professor alla National University of Singapore, ha un mantra: “Dobbiamo spostare l’intelligenza artificiale dal cervello al corpo”. Cosa questo significhi è presto detto: “A differenza dell’intelligenza artificiale che sta dentro al telefonino o al computer, il robot ha il movimento. Secondo me è lì che noi robotici dovremmo provare a dare un contributo”.

Laschi è pioniera a livello mondiale per quanto riguarda la bio-robotica, ovvero la robotica che imita gli animali. È il suo gruppo del Sant’Anna ad aver realizzato Octopus, un polpo-robot in grado di muoversi anche in acqua.

Negli anni le applicazioni non sono mancate e l’algoritmo sviluppato ha permesso ai vari prototipi di adattarsi al contesto in cui si trovavano. L’idea è quella di avere a disposizione un robot in grado di esplorare gli ambienti più estremi, quelli proibitivi per un essere umano.

Ma non ci si ferma qui: “Penso che la soft robotics, cioè quella branca che riguarda i robot “morbidi” possa avere un’ampia applicazione in medicina e più in generale nell’assistenza alle persone. Quello che secondo me è sbagliato è che oggi i processi tecnologici si facciano guidare dalla tecnologia stessa: dobbiamo partire dai bisogni delle persone, non da quello che sappiamo fare a livello tecnico”. Altrimenti, il paradosso è avere App e robot efficientissimi ma che si rivelano poco utili alla prova dei fatti.

Ripartire dai bisogni

“Il problema dell’assistenza agli anziani qui a Singapore è molto sentito – prosegue l’esperta –. Il Paese, poi, rappresenta una realtà avanti di qualche anno rispetto a noi. Non è quindi raro, in ospedale, vedere robot su ruote che girano tra i letti informandosi sulla salute dei pazienti e misurando loro la temperatura. Si tratta senza dubbio di mansioni utili, che però potrebbe fare, con soddisfazione, un essere umano. Perché lasciamo le parti più empatiche ai robot e quelle più pesanti fisicamente, come alzare e girare una persona che ha poca mobilità, agli esseri umani?”.

E il paradosso si vede anche al di fuori dell’ospedale: “Mi chiedo se davvero oggi serva una persona per raccogliere i pomodori sotto il sole cocente, o per lavare una cisterna. Sono azioni che potrebbe compiere un robot in modo più efficiente e senza mettere in pericolo la vita dei lavoratori”. E ancora: “Nell’e-commerce tutta la parte stimolante del commercio è in mano agli algoritmi, mentre l’uomo è colui che ci consegna a casa i pacchetti che ordiniamo. Credo che non abbia molto senso”.

A Singapore Laschi sta per iniziare uno studio in collaborazione con alcuni centri medici: “A breve partiremo con le interviste a pazienti, cargiver e operatori sanitari, per capire davvero quali sono i loro bisogni e per provare a costruire una tecnologia che risolva i problemi e semplifichi il quotidiano”, spiega. L’idea è quella di utilizzare le conoscenze applicate al polpo robot per ottenere un braccio morbido che possa svolgere compiti come imboccare, ma anche spostare la persona. In generale, azioni meccaniche o faticose per l’assistente umano. Oppure, per le persone più autosufficienti, che sia un supporto durante la doccia. “In questo modo gli operatori e i caregiver si potrebbero occupare degli aspetti che hanno a che vedere con il contatto umano, quelli più empatici e che danno anche maggior soddisfazione reciproca”, afferma Laschi.

Il collo di bottiglia post-dottorato

Dalla sua esperienza internazionale, Laschi guarda all’Italia come a uno Stato che “investe tantissimo in formazione e poi “regala” il capitale umano all’estero. L’università e il dottorato sono investimenti importanti per il nostro Paese: quando i ragazzi hanno finito di studiare e potrebbero iniziare a restituire qualcosa, però, scoprono che per loro non ci sono posizioni aperte e vanno altrove”.

Il problema per l’esperta esiste nel pubblico come nel privato, anche se in quest’ultimo ambito le cose stanno migliorando: “Oggi per molti è chiaro il valore aggiunto che può portare un dottore di ricerca rispetto a un semplice laureato, per esempio”.

Il problema, secondo Laschi, è da cercare però al di fuori dei laboratori: “I cittadini non hanno idea del valore della ricerca, sembra quasi che si buttino via i soldi. Non capiscono che la ricerca invece è innovazione, significa posti di lavoro. In Italia non è facilissimo far passare questo messaggio, ma credo che sia fondamentale perché solo cittadini più informati possono chiedere alla politica di finanziare la ricerca”.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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