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Sohail, figlio d’Afghanistan salvato

Il fagotto tirato su per un braccino, oltre il muro, sopra il filo spinato. Per volare via. Aveva due mesi Sohail il 19 agosto della fuga, giorno assolato, pieno di caos all’aeroporto Hamid Karzai di Kabul, una settima prima della devastante strage di corpi dalle anime in pena. 

Passò di mano in mano fra chi sperava di partire, iscritto alle liste dell’evacuazione, raccomandato da qualche occidentale pietoso o compiacente coi padroni del Paese che erano già scappati. Suo padre, Mirza Ali Ahmadi, che aveva fatto la guardia all’ambasciata statunitense di Kabul, era nella lista con figli e moglie. Aspettava, come altri, con una certezza in più. Però il sudore, il calore, la ressa, gli spintoni gli fanno temere il peggio e fa scorrere il corpicino di Sohail di braccia in braccia verso la recinzione della salvezza. Una mano di marines lo tirò su, varcò il muro. Fu certamente accudito, da più d’un soldato, lo testimoniano delle immagini. Poi lo smarrimento. I genitori non lo ripresero, probabilmente non fecero in tempo, il decollo non aspettava nessuno, visto l’assedio dei non garantiti al carrello, alle ali dell’aereo. Scene di follìa, prima che di speranza, scene d’umiliazione per elemosinare futuro. Dunque il bebé resta fra i marines che, però, hanno altro da fare. Lo depongono in un angolo, i genitori lo cercheranno… Lo trova il tassista Safi, il piccolo piange, avrà fame. Prova a cercare i parenti senza riuscirci, domanda, poi lo porta con sé, a casa, dalla moglie e tre figlie. La coppia concorda “Se si troveranno i genitori restituiremo il bimbo, altrimenti lo terremo con noi, vogliamo un figlio maschio”. Dopo averlo fatto visitare da un medico e constatata la buona salute Sohail, che la coppia chiama Mohammad Abed, entra a tutti gli effetti nella nuova famiglia.

Una loro foto, tutti riuniti, viene postata sulle pagine di Facebook e il piccolo – di cui molto s’era parlato sui media anche perché immortalato fra le braccia dei militari in uscita – è riconosciuto da alcuni vicini della famiglia Ahmadi. Loro intanto sono volati in Texas. Il suocero di Mirza, rimasto in Afghanistan, pur vivendo a Badakhstan, un’area del nord-est, si reca nella capitale in cerca del nipote e di Safi. Questi rifiuta di riconsegnare Sohail, sostiene di voler essere evacuato anche lui dall’Afghanistan col proprio nucleo familiare. I genitori di Sohail, avvisati dal parente afghano, si rivolgono alla Croce Rossa senza ottenere nulla. Mentre il suocero si reca dalla polizia talebana accusando Safi di rapimento. Safi si giustifica: nessun rapimento, lui s’è preso cura d’un neonato abbandonato in un angolo dell’aeroporto. La polizia raccoglie le impronte digitali dei contendenti e prende tempo per decidere. Intanto il padre legittimo fa sapere di voler compensare il tassista con 100.000 afghani, circa un migliaio di dollari, per le spese intercorse nei cinque mesi di ‘affido’ di Sohail. Con un accordo fra le parti, il capo della polizia acconsente allo scambio. Il nonno ha raccontato all’agenzia Reuters, che ha divulgato la vicenda: “Safi e la moglie erano devastati al distacco, piangevano disperati. Anch’io piangevo, ma ho ricordato loro come fossero ancora giovani, Allah li avrebbe aiutati ad avere un erede maschio. Non uno solo, diversi”. Gli Ahmadi che, dopo un periodo trascorso in una base militare in Texas riceveranno un appartamento nel Michigan, si dichiarano felicissimi d’aver ritrovato il figliolo, Mirza e la moglie Suraya scrivono sui social che daranno una festa. Magari qualche Major ne farà un film a lieto fine. Ma come vivono i Sohail rimasti a Kabul, i sommersi cui proprio la salvifica America sta bloccando i fondi per il cibo?

Enrico Campofreda

 

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