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Home page > Tempo Libero > Fame&Tulipani > Slow Food | Presidi a difesa di saperi e sapori

Slow Food | Presidi a difesa di saperi e sapori

 Il progetto dei Presidi di Slow Foodnasce sul finire del secolo scorso e cresce veloce. Alle 90 realtà presentate al Salone del Gusto del 2000 ne seguono altre fino alle 294 attuali che coinvolgono oltre 200 produttori su tutto il territorio nazionale. A spiegarci le ragioni e le regole che ne stanno alla base è Silvio Barbero, tra i fondatori di Slow Food e oggi vice presidente dell’Università degli studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (CN). Un’intervista realizzata in collaborazione con AlterAzioni Consapevoli che integra quella pubblicata a gennaio.

Come nascono i Presidi?

L’intento dei Presidi è tutelare i prodotti in via di estinzione al fine di difendere i saperi tradizionali e salvaguardare la biodiversità, sia del gusto, sia di flora e fauna. Il processo per crearli è lungo. Si inizia con il comprendere le ragioni della scomparsa di un alimento: l’assenza di produttori o di mercato, il costo di produzione elevato o la scarsa competitività commerciale. Valutati i problemi, facciamo un progetto di rilancio e dei piccoli disciplinari da osservare per dare garanzia di qualità e rispetto delle tradizioni. Si formano così dei consorzi di produttori ai quali forniamo supporto con agronomi e veterinari capaci di valorizzare e promuovere l’alimento, nonché di rendere la coltivazione più sostenibile. Non obblighiamo alla certificazione biologica perché ha costi e norme poco accessibili per piccole realtà come quelle dei Presidi, ma pretendiamo una produzione in armonia con la natura dove si deve curate il terreno, l’acqua, la biodiversità e altri parametri ambientali. Gli allevamenti hanno diverse imposizione per la tutela dell’ecosistema. Ad esempio, non devono essere industriali e prevedere mangime a terra, la stagionatura e l’affumicatura dei formaggi deve essere naturale e senza l’uso di sistemi tecnologici a ridurre i tempi.

Fornite anche supporto burocratico?

Si, in particolare diamo aiuto burocratico e normativo per mettersi in regola con le disposizioni europee in materia di igiene sanitaria (HCCP), molto complesse e di difficile gestione per piccole realtà come i consorzi. Non solo. Facciamo pressione sulle istituzioni per concedere delle deroghe per le produzioni locali e tradizionali. Le attuali leggi sono pensate per l’industria alimentare e sono troppo stringenti per piccoli agricoltori e allevatori. Una lavorazione su legno vietata all’industria può andare bene per i micro produttori e batteri e muffe diventare la garanzia della qualità dei prodotti. Vogliamo rispettare le norme, ma pure fare capire che un allevamento in alpeggio è diverso da quello intensivo e il latte crudo che ne deriva è più buono e sano, ossia meno pericoloso per la salute. È una questione di valutazione del rischio sanitario. Un formaggio industriale con milioni di forme vendute potrebbe intossicare migliaia di persone, dai bambini agli adulti. Viceversa, se emerge un problema con il Castelmagno il rischio sanitario è basso perché le forme sono poche e non si danno di certo ai più piccoli. È una battaglia culturale per cambiare le norme industriali o, per lo meno, per introdurre vincoli meno restrittivi per le produzioni tipiche locali.

Esiste pure un supporto economico?

In generale siamo contrari alla logica dell’assistenza. Qualche presidio collabora con le istituzioni locali, ma si tratta prevalentemente di una richiesta che arriva dalle stesse istituzioni desiderose di supportare realtà che possono attirare sul territorio interesse e turismo. La nostra filosofia è che le produzioni si sostengano da soleincrementando la produzione e ottimizzando la filiera come consorzio. Questo comporta avere prezzi superiori a quelli di mercato, dovuti ai maggiori costi generati da una lavorazione manuale e dai rischi più alti legati a una produzione di quantità modeste. In compenso, questo ci ha permesso di rendere sostenibili alimenti che stavano scomparendo, come il Cappone di Morozzo, primo presidio Slow Food. Un risultato non soltanto culinario, ma che ha creato un’economia locale e riportato i giovani alla terra, uno dei nostri obiettivi primari.

I produttori pagano per fare parte di un Presidio?

Fino al 2007 non chiedevano nessun contributo, ma sostenevamo la consulenza fornita grazie a sponsor istituzionali o aziendali. Poi lo sviluppo del progetto ha richiesto di introdurre un marchio di contrassegno per rendere più visibile l’appartenenza al Presidio e per tutelare i produttori del consorzio da estranei che dichiaravano di farne parte senza rispettare i disciplinari imposti. Con il debutto del contrassegno sono aumentate le spese per i controlli, per far fronte alle quale abbiamo previsto un contributo ai consorzi proporzionale alla realtà economica del presidio, con i più piccoli che contribuiscono soltanto con un importo simbolico.

Così rischiate di incorrere nelle critiche rivolte al biologico, ossia che l’ente certificatore è pagato da chi viene certificato?

A differenza del biologico, non forniamo una certificazione, ma un semplice contrassegno fornito a un consorzio, e non al produttore, finalizzato a segnalare il rispetto di regole e valori. Chi non li rispetta esce dal Presidio, che può anche essere chiuso se ha raggiunto un livello di sostenibilità economica che non richiede più una tutela. Non puntiamo ad avere tanti Presidi o a sfamare il mondo, ma soltanto ad evitare l’estinzione di alcuni alimenti. E l’obiettivo non è la certificazione o la maggiore visibilità, ma fornire modelli di sostenibilità economica e ambientaleda seguire. Quanto al biologico, il conflitto di interesse dell’ente certificatore sussiste e offre la possibilità di truffe. Noi vorremmo che la certificazione fosse fatta da organismi pubblici indipendenti per minimizzare i rischi di frode e che i meccanismi fossero diversi. Nelle procedure attuali, infatti, c’è una grande contraddizione: chi rispetta la natura paga, mentre chi inquina è essente da contributi. La logica vorrebbe che fosse l’esatto opposto, ossia che i produttori inquinanti paghino per i danni all’ambiente e alla salute che provocano. In ogni modo, è preferibile avere dei produttori biologici con l’attuale legislazione piuttosto che lasciare l’intero settore alimentare all’industria.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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