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Siria fra ribellione, consenso e guerra civile

La carta della contro-piazza giocata da Bashar Asad a favore del proprio sistema di potere sembra non avere un effetto favorevole.

Le gigantesche manifestazioni a suo sostegno hanno portato, nelle ore seguenti, centinaia di siriani a colpire ambasciate un tempo amiche, su tutte quella turca. Altri assalti sono seguiti ieri contro le sedi diplomatiche di Qatar, Emirati Arabi, Marocco.

Così dopo la censura scagliata dalla Lega Araba verso Damasco per la linea repressiva del presidente le sanzioni possono ora arrivare anche dall’irritato governo Erdoğan che coi suoi ministri - Çağlayan (economia) e Yildiz (energia) - minaccia di mettere al buio i vicini tagliando le forniture elettriche.

La corsa del gruppo dirigente legato alle famiglie Asad, Mahluf, Salis, Sawkat, sodali e in certi casi imparentate per  interessi affaristici, sembra giunta al capolinea visto l’isolamento politico che va ben oltre il piccolo e grande Medio Oriente. Pochissimi restano accanto all’establishment siriano: lo Yemen, Hezbollah in un Libano che si ridivide pericolosamente e l’Iran, anche se taluni lanci d’agenzia riferivano nei giorni scorsi d’incontri segreti fra funzionari di Teheran e lo staff degli Asad.

L’attuale geopolitica può rendere cinicamente pragmatici gli ayatollah che per un lungo periodo hanno avuto nel Paese governato dagli epigoni di Hafez un formidabile avamposto per lo sviluppo della propria influenza nella regione. Essi non hanno sposato quel regime e ora che non trova sbocchi alla sua crisi mentre l’Iran è sotto attacco economico e forse militare per la questione del nucleare potrebbero lasciare Bashar al suo destino.

Naturalmente esiste l’incognita dell’immediato futuro, con l’ipotesi di un’aperta guerra civile, o un intervento militare Nato stile Libia, oppure un’ingerenza imperialista delle forze occidentali nemiche di Teheran su cui Israele stesso può innestare la propria smania d’attacco ai siti nucleari iraniani.

Ma ormai quello che anche in Siria non potrà più essere mantenuto è lo status quo ante che per quasi quarant’anni ha fatto comodo a Tel Aviv e Teheran, a Washington e Mosca. Proprio Mosca ha mostrato un fastidio che deve preoccupare il presidente Bashar perché le pressioni russe (e cinesi) contro un intervento militare hanno messo a riparo, mese dopo mese, una tornata repressiva via l’altra, le iniziative delle milizie siriane sulla folla.

Quest’ultima, fra gli attori in scena, è finora l’unica a subire le peggiori conseguenze lasciando per le strade un numero incredibile di vittime, si dice oltre quattromila di cui oltre tremila civili. La tivù di Stato sostiene che ben 1.120 militari sono stati uccisi da marzo a oggi da complottisti stranieri che fomentano la rivolta. 

La partita siriana è giocata da molti attori. Le grandi potenze attuali e future non sono certamente secondarie anche se potrebbero continuare a intervenire per interposta presenza. Oppure stabilire momentanee alleanze tattiche come quella vociferata fra Erdoğan e Obama. I passi compiuti e quelli che il governo turco potrà compiere per disarcionare gli Asad possono tornare utili agli Stati Uniti orfani in quella zona strategica di “democrazie” alla Mubarak.

Mentre, se si ragiona in termini di mercato, privare la Siria di elettricità e altri servizi rappresenta uno svantaggio per i bilanci di Ankara che molto ha investito nell’attigua nazione.

Ma dopo mesi di torpore sembra prevalere l’attenzione ai diritti. Le ultime dure stoccate diplomatiche turche sono state giustificate dall’intollerabilità del bagno di sangue di civili protrattosi per troppo tempo e dall’insufficiente e tardiva iniziativa di Asad di liberare un migliaio degli oltre 13.000 imprigionati.

Eppure la contrarietà a interventi militari in terra siriana è stata ribadita anche ieri al vertice della cooperazione turco-araba tenutosi a Rabat sia dalla Turchia sia dalla Lega Araba. I rappresentanti siriani s’erano rifiutati di partecipare all’assise. Però la possibilità che le manifestazioni d’opposizione non siano più pacifiche, trasformandosi in maniera diffusa in scontri armati fra ribelli e lealisti, com’è già accaduto nei mesi scorsi a Homs e Deraa diventa un’ipotesi più che reale.

Un numero crescente di semplici soldati dell’Esercito regolare sta disertando portandosi dietro se non i tank armi leggere e pesanti e competenze nell’usarle. Secondo la tivù Al Jazeera, nota per essere di parte nella gestione dell’informazione alla stregua dell’agenzia Sana’a, proprio ieri un gruppo di ex militari ha assaltato una struttura dell’Intelligence dell’aeronautica ad Harasta, nei pressi della capitale.

Pur nella difficoltà di districarsi fra le fonti d’informazione, che gli ostacoli posti ai giornalisti di seguire in loco gli sviluppi della crisi portano a utilizzare anche testimonianze circolanti nei classici social net work, notizie di defezioni fra i reparti meno irregimentati delle Forze Armate hanno ricevuto molteplici conferme scritte e filmate. 


 

 

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