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Si fa presto a parlare di debito “buono”

Quanto è difficile, e a volte futile, pensare di separare la spesa pubblica "buona" da quella "cattiva". E, per recuperare risorse, gli americani si riscoprono cooperativi col resto del mondo

Ricordate il precetto emerso all’inizio di questa pandemia, relativo ai sussidi? Darli solo a entità “meritevoli”, siano esse persone fisiche o imprese. Riguardo quest’ultime, darli solo a quelle in grado di restare vive e vitali dopo la pandemia. Tutto molto condivisibile ma altrettanto astratto e soggetto a valutazione politica, inclusi assalti alla diligenza che sono parte ineludibile del processo di definizione delle politiche pubbliche. Immancabili i commenti di alcuni improbabili personaggi prestati alla politica, che si sono esercitati nella tassonomia tra “debito buono” e “cattivo”, con gli abituali esiti comici. La realtà è che è terribilmente difficile scegliere in modo ottimale o quasi, e i danni delle decisioni assunte tenderanno a persistere.

Lo spiega in modo inappuntabile Raghuram Rajan, docente di finanza alla Booth School of Business dell’Università di Chicago e già co-autore, con Mario Draghi, di quei precetti, mesi addietro, oltre che l’uomo che aveva previsto la grande crisi di una dozzina di anni fa. Rajan si riferisce alla forte espansione fiscale statunitense, definita “tumulto”, e alla ubriacatura che pare aver colto molti, sulla nuova era in cui i limiti al debito saranno rimossi come una reliquia ideologica del passato.

Spesa senza più limiti?

Se solo fosse vero. Scrive Rajan, parlando del timore che l’espansione americana porti inflazione ma finendo a esprimerne uno differente.

La spesa è stata stimolata dalla convinzione che, fintanto che il governo federale potrà indebitarsi senza aumenti del tasso di interesse, nessuno dovrà davvero pagare.

Questa pare in effetti essere diventata la nuova formula magica e la nuova cornucopia sull’eliminazione dei vincoli di bilancio e di realtà. Fulminante il modo in cui Rajan esprime le sue perplessità al riguardo:

In caso i mercati fossero in disaccordo, i ricchi potranno essere tassati.

Che poi è quanto intende fare Joe Biden, presentando il suo programma di investimenti infrastrutturali e quello che seguirà, sul capitale umano, finanziati da aumenti di imposta su imprese e persone fisiche. Nel dubbio che i mercati possano essere in disaccordo, ma anche per mandare messaggi di lotta alle diseguaglianze, meglio procedere con inasprimenti fiscali.

Chi merita i sussidi

Tuttavia, l’invecchiamento delle popolazioni rischia di rendere non sostenibile tale aumento di debito. Quanto all’aumento della tassazione sui ricchi, quelli veri, Rajan è scettico: elusione ed evasione saranno il modo per opporvisi, se la contrarietà non dovesse aver successo in sede di percorso parlamentare.

Quindi, spesa pubblica senza restrizioni rischia di porre pesanti ipoteche sul futuro del debito e sulle prossime generazioni di contribuenti. E arriviamo quindi al “merito” dei sussidi. Certamente necessari e doverosi quelli a favore di chi è stato colpito dalle chiusure, sia come sussidi di disoccupazione che come contributo all’affitto, ad esempio.

Ma i sussidi possono arrivare anche a chi non ne ha bisogno. E qui ci sono alcuni esempi di soggetti immeritevoli. Dal “ricco dentista” che recupererà tutto a pandemia finita sino alle linee aeree, le meno meritevoli di sostegno, secondo Rajan. Interessante anche per noi italiani, vista l’ennesima rappresentazione teatrale sul complotto ai danni di Alitalia e della nuova compagnia che da essa dovrebbe nascere.

Le linee aeree, secondo Rajan, devono sottostare a procedure fallimentari in continuità, ove possibile, perché la pandemia è e resta parte del rischio d’impresa, dopo tutto. Quindi ristrutturazione del debito. E chi non rientra nell’ipotesi di continuità? Chiude. Con buona pace di chi pensava che la pandemia fosse l’occasione per il grande reset, o meglio per continuare come se nulla fosse accaduto, dopo anni di perdite senza soluzione di continuità.

La pandemia non è una recessione ordinaria, ricorda Rajan. Molti risparmi si sono accumulati sui conti come conseguenza del congelamento della vita normale. Quando tutto sarà finito, questi soldi torneranno in circolo. Ciò suggerisce che servirebbe erogare sussidi pubblici solo limitatamente alla compensazione di perdite vere e definitive, non su base indiscriminata. Altro precetto che pare molto semplice da enunciare ma altrettanto difficile da applicare alle politiche pubbliche. Quanto è morale vedere parte dei sussidi spesi nel trading online?

Quale spesa è davvero buona?

Rajan pare rammaricarsi per la decisione di aumentare le imposte su investimenti infrastrutturali che, a suo giudizio, si ripagherebbero. Serviva meno larghezza sui sussidi, da rendere mirati, e non più fisco sugli investimenti, pare sostenere l’ex governatore della banca centrale indiana.

Sappiamo però che non basta definire una spesa come investimento, per evitare lo spreco e le distorsioni da regalo alle proprie constituencies elettorali. Quindi direi che i criteri di Rajan sulla identificazione della spesa pubblica “buona”, anche corrente, sono utili ma restano astratti.

Portiamo a casa un distillato di punti più o meno fermi. Le politiche pubbliche sono fatalmente condizionate da esigenze elettorali. Gli “sprechi” sono sempre quelli altrui. La spesa pubblica “buona” non è necessariamente sempre quella per investimenti, quella “cattiva” non è necessariamente sempre quella corrente. Il rischio di aver speso troppo e non bene, in questa pandemia, è molto elevato, e il debito così creato ci accompagnerà per molto tempo, limitando lo spazio fiscale futuro.

Gli USA e la cooperazione fiscale

Come finanziare tali spese, senza precludere il potenziale di crescita, resta oggetto di dibattito. Gli Stati Uniti hanno lanciato con Janet Yellen l’idea di una imposizione minima globale che includa anche quella sulle piattaforme tech, per recuperare gettito dagli apolidi fiscali. Che poi sono quasi sempre aziende americane, molte delle quali hanno un tax rate prossimo a zero o pressoché simbolico.

Per riavere quei soldi serve la cooperazione internazionale, da ricompensare concedendo parte del gettito ai paesi dove si forma, ad esempio in base alle vendite locali. Smettere di voltarsi dall’altra parte, ridurre drasticamente la grande elusione. Cooperazione certamente più facile a dirsi che a farsi, in un mondo policentrico che va verso un confronto tra blocchi.

Bisogna fare di necessità virtù: essere liberisti e internazionalisti quando possibile, e quando ciò consente di dominare il mondo. Quando necessario, si diventa più “pianificatori”, o se volete dirigisti o keynesiani, e l’internazionalismo evolve da “fate come vi dico, per il vostro bene” a “fate come vi dico, per il nostro bene”. Dal Washington Consensus alla rinascita dello spirito di Bretton Woods, insomma; inutile sorprendersi o indignarsi. Io poi, mi professo da sempre realista nel senso della scuola di pensiero di relazioni internazionali, figuriamoci.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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