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Salari e stipendi italiani: ogni tanto scoprono "l’acqua calda"

Si sa da sempre, ma di norma si dice molto poco. Poi, alla “scadenza” cronologica dell’emissione dei dati, i benpensanti delle varie categorie, tutti o quasi, “scoprono l’acqua calda”, e voilà, si apre l’assordante chiacchiericcio.

Come tante altre volte visto, dagli ambiti “istituzionali: governativi, politici, informativi, sindacali e quant’altro di connesso, l ‘affabulazione dura poco. Domani è sempre un altro giorno. Tranne per i lavoratori, i diretti interessati che, quotidianamente, per tutti i giorni dell’anno, si angosciano per spartirsi il mitico magro pollo decantato da Trilussa.

Questa volta innescano la miccia i dati emessi in data 26 febbraio dall’ Eurostat (l’equivalente europeo dell’italiano Istat): “Labour market statistics”. Sono quelli che riguardano la struttura annua lorda di salari e stipendi in Europa (rilevati al 2009), nei siti aziendali sopra i dieci dipendenti.

Per quel che risulta, riguardo il numero degli addetti in Italia, non c’è un dato similare consolidato di uso comune, poiché nelle analisi sulle varie tematiche che riguardano il mondo del lavoro si preferisce sempre il limite dei quindici previsto dallo Statuto dei Lavoratori. E’ certo, però, che con l’esclusione dei luoghi del piccolo commercio e della minuta produzione diretta ricadenti in questo tetto, dove peraltro per gli usi e costumi operati le retribuzioni sono sempre più basse, si parla del nerbo delle struttura produttive e dei servizi operativi in Italia, quindi di una larghissima fetta occupazionale. 

Nell’esame comparativo che interessa sedici paesi, l’Italia, con un valore annuo di 23.406 euro si piazza al 12° posto, prima di Portogallo, Slovenia, Malta, Slovacchia; dopo la Grecia, Spagna e Cipro. Al primo posto il mite Lussemburgo con 48.914 di euro, al terzo posto la grande e forte Germania con 41.100 euro, poi tutto il resto della comitiva.

In più, si sa per acclarato, dalle statistiche generali o per avere direttamente toccato la realtà vigente nei diversi luoghi “stranieri”, che molti e variegati beni di consumo costano meno che in Italia: carburanti, assicurazioni, energie, gas, metano, oneri bancari, beni alimentati primari a partire dal latte, solo per fare pochi esempi. Quindi, va da sé, che il differenziale si allarghi ancor di più.

Tradotto in bruta materialità, nel nostro paese i lavoratori e le loro famiglie (specie i mono redditi), o almeno la grande maggioranza, sulla vivibilità economica e sociale fanno la fame, o quasi. E, per carità di Patria, sospendiamo dalla valutazione i parametri generali, le devastazioni ambientali e i metri comparativi che determinano l’essenza di uno stato civile e democratico.

“Lasciamo stare”, solo per comodità di scritto, gli altri, i veri reietti: disoccupati, pensionati al minimo, precari, addetti al nero, migranti, etc. E’ palese, infatti, che la statistica in oggetto prenda in esame i retribuiti legali di fatto, nelle forme e con le modalità previste dai contratti di lavoro e regolamentate per leggi.

La quota mensile, scorporando le parti relative alle altre voci contrattuali, tipo 13°, 14°, premio di produzione, straordinari, etc..., va da sé. Al netto restano solo le lacrime... poi ai “ raffinati”, seduti sulle loro pile finanziarie, si arriccia il naso a sentir parlare di doppio lavoro.

Alla divulgazione della notizia, immediatamente a ruota, il Ministro Elsa Fornero afferma: Salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività” Già, la produttività!

Parola mitica e miracolosa, misteriosa per certi versi, specie al grande pubblico. Tirata in ballo, da sempre, in tutte le stagioni. Uno stuolo di “filosofi”, economisti, dottrinari dell’accumulazione, matematici, politici, sociologhi e commentatori di tutte le salse, la tirano, la stringono e l’allungano in funzione di obiettivi altri. Molte sono le “misure di produttività” che vengono prese in esame, poi inserite nei mirabolanti diagrammi che giudicano l’andamento dell’economia, quindi del paese. Valori e inviluppi che assieme allo spread e al debito sono diventati i veri mostri sacri che gestiscono la vita umana. Le linee guida sono indicate nel “Manuale per la misurazione della produttività” dell’OCSE ( Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).

Nel nostro paese, in maniera particolare e martellante, viene posta al centro dell’attenzione da svariati decenni. Guarda caso su questo terreno gli altri paesi europei per di più avanzano sempre. Qui da noi, a loro dire, si rimane fermi, anzi si regredisce. Eppure, proprio a seguito della forzuta indicazione dei “soloni” nostrani, sull’altare dell’aurea accoppiata produttività–costo lavoro, con un indirizzo iniziato già parecchi anni addietro, sono stati sacrificati molti aspetti rilevanti delle strutture retributive e normative dei lavoratori italiani. Proprio quelle azioni che hanno determinato il “brillante” risultato in essere. E ancora non si accontentano. In maniera impetuosa è aperto il fronte che vorrebbe strutturalmente modificare i contenuti e gli ambiti applicativi dei contratti nazionali di lavoro. Per sviare dalla tragica realtà di salari e stipendi in essere si vorrebbe aggredire, anziché allargarlo a tutti, l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, pilastro fondamentale in difesa della dignità contro tutte le inique discriminazioni ad personam, ed inoltre ridimensionare in maniera gigantesca gli ammortizzatori sociali, strumenti fondamentali per la semplice sopravvivenza.

Lo squilibrio nella scala europea, oggi diventato enorme ed insormontabile, infatti, si è progressivamente allargato e consolidato nel corso degli ultimi due decenni. Determinante è stato il degenerato sistema globale Italia rivolto esclusivamente e scientificamente a favorire i forti e gli illeciti; le scelte dei governi delle destre berlusconiane e dei centri più o meno variegati; l’asservimento culturale e materiale ai criteri del sistema di gran parte delle sinistre; l’incapacità di intervento nel sociale e il declamare nominale sterile e inconcludente; le politiche contrattuali e rivendicative in genere oltremodo “buoniste” e autoflagellanti, legate al carro del vincente, di parte rilevante delle organizzazioni sindacali che, ormai invischiate nelle cosiddette strategie contorsioniste della compartecipazione tutta a perdere, da molto tempo ormai sono più “realiste del re” ( plurale) che agisce per raggiungere i suoi esclusivi interessi.

Fino a pochissimo tempo addietro gli scioperi generali indetti dalla Cgil contro le politiche sociali del Governo Berlusconi venivano avversati e contrastati dalle altre sigle. Oggi il rischio consolidato è che tutto taccia, con l’esclusione della Fiom e delle altre minoritarie organizzazioni di base. La gestione sul “Salva Italia” del presidente Monti, che impoverisce ancor più lavoratori e pensionati lo insegna bene: uno sciopero di tre ore e tutti a casa.

I dati Eurostat affermano che nel quadriennio 2005-2009 le retribuzioni in esame, pur partendo da posizioni fortemente minoritarie, si sono incrementate di un misero 3,3%, mentre in Germania, + 6,2; Francia, +10; Belgio, +11%; Olanda, +14,7; Lussemburgo, +16,1; Portogallo, +22; Spagna, +29,4.

La vulgata trasmessa rappresenta i lavoratori italiani come se fossero dei perenni oziosi, quasi per lo più dediti a giocare a palla e a bighellonare, nelle catene di montaggio, negli opifici e nei siti tutti della produzione e della trasformazione.

Una vera e propria favola mediterranea alimentata bene e ad arte, giusto per confondere le carte, da tutti coloro che, dediti al rastrellamento - per loro uso e godimento - delle risorse economiche e finanziarie, sono gli artefici della decadenza del paese. Quel variegato 10% che possiede il 50% della ricchezza nazionale, con in testa i comandanti del vapore industriale, finanziario e commericiale, e non solo. Investono, sì, in sofisticati strumenti di speculazione finanziaria e fondiaria, gareggiando in illecite esportazioni di capitali all’estero. Su questo la produttività italiana è proprio altissima.

Intere ed enormi filiere produttive sono state smantellate o dirottate. Gli investimenti, la ricerca, le innovazioni e le tecnologie, motori fondamentali della produttività, tranne rari casi, languono, messi all’angolo e disconosciuti.

Illegalità, mafie, corruzioni ed evasioni fiscali strutturali, clientelismi, ruberie diffuse, le inaudite ed enormi prebende concesse ai preposti del management privato e pubblico, sono le perfide ed ingorde piovre che strozzano il paese e la sua produttività. Sono queste le vere cause del debito nazionale.

Al netto, i 23.406 euro annui vengono massacrati da un perverso meccanismo fiscale che strozza le retribuzioni. Non solo le aliquote più alte nell’ambito europeo con oltre il 45%, ma addirittura lavoratori e pensionati, gli ultimi nella scellerata gerarchia sociale italiana, contribuiscono con l’82% nella composizione totale dell’Irpef. Sottopagati a monte, e poi mazziati a valle.

Uscire da questa infernale spirale è la priorità assoluta. Lo rivendicano, per necessità di vita decine di milioni di italiani. Lo richiedono i giovani che reclamano lavoro, dignità e certezze per il loro futuro. Per far ciò, recuperando operativamente in maniera sostanziale i dettami costituzionali, i valori di libertà, di democrazia sociale e le energie fondanti dell’Italia nata dalla Lotta di Liberazione contro il nazi-fascismo, bisognerebbe totalmente rinnovare le progettualità e gli ideali di riferimento, motori di un risolutivo rinnovamento, non più rinviabile, le risorse umane, il quadro politico e la rappresentazione sindacale. E’ triste constatare che a soli 67 anni dall’impeto del riscatto democratico, civile e libertario, il nostro paese sia ritornato al feudalesimo più bieco.

di Domenico Stimolo

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