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Ruanda: i sogni e le paure dei figli del genocidio

 
Il genocidio in Ruanda è stato uno dei più orribili e sanguinosi eventi della storia del XX secolo. Dal 6 aprile del 1994 (domenica si è celebrato il ventesimo anniversario) per circa 100 giorni vennero massacrate tra le 500mila e 1 milione di persone (secondo le stime di Human Rights Watch), a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati. Il genocidio nato da un pretesto razziale fu concluso solo grazie alla missione umanitaria "Operation Turquoise", voluta e autorizzata dall'Onu e intrapresa dalla Francia. 
 
L'idea della differenza razziale risaliva al primo colonialismo belga dove la popolazione ruandese era distinta in due stirpi, quelle degli Hutu e quella dei Tutsi, secondo canoni fisici, per cui i primi erano di media altezza e col viso dai lineamenti marcati mentre i secondi erano alti, snelli e avevano il naso e l'intero viso più sottile. I Tutsi erano numericamente di più e fu la stirpe che contò più vittime. 
 
In realtà la differenza maggiore fra i due gruppi prima del colonialismo belga era sociale ed economica: i Tutsi erano più ricchi, gli Hutu meno, ma era comunque possibile passare agevolmente da un gruppo all'altro per migliorare la propria condizione, anche attraverso i matrimoni misti allora ancora possibili. 
 
Fu con il colonialismo belga, appunto, che le distinzioni, sopratutto razziali, si acuirino divenendo veri e propri muri invalicabili che andarono a irrigidire la situazione sociale del Ruanda. Gli Hutu che erano i poveri dovevano sottostare ai Tusti che appunto erano i ricchi della società. Ma la situazione toccò il suo apice quando  gli Hutu presero il potere (alleati dei belgi e dei due gruppi paramilitari, anch'essi di stirpe Hutu), in seguito a varie rivendicazioni politiche sull'abbattimento dell'aereo del Presidente Habyarimanaperseguitarono i Tutsi (e gli Hutu imparentati con loro) la maggior parte dei quali tentò di fuggire, principalmente in Uganda per scampare alla morte certa. Per dare un'idea sommaria di quello che avvenne, basti pensare che in un giorno vennero uccise circa ottomila persone, circa 333 all'ora, ovvero 5 vite al minuto
 
Le Monde, in occasione del 20° anniversario, pubblica un reportage sul Ruanda e sulla storia dei giovani rwandesi che seppur non abbiano vissuto in prima persona la strage, ne portano ancora i segni psicolgici. Il reportage si chiama In Ruanda, avere 20 anni: l'età del genocidio
 
Le varie testimonianze, raccolte dal giornale, di ragazzi che nel 1994 non erano neanche nati o hanno vissuto quei giorni stretti nelle braccia della propria madre fuggendo per scampare a quel destino già segnato, sono piene di sentimento, dolore, incertezza, curiosità e rispetto per la storia passata del loro paese. 
 
Kolbe Hategekimana è nato il 9 maggio 1994, trentadue giorni dopo l'inizio del massacro, figlio di un matrimonio misto, madre tutsi e padre hutu, chiaramente destinato alla morte certa. Kolbe, che ora è un giovane ventenne con tanti sogni e progetti nel cassetto, ha vissuto i primi giorni della sua vita stretto nelle braccia della madre che cercava di fuggire dalle violenze che allora imperversavano nella loro terra. Il giovane sogna di diventare stilista, ama la moda e ha grandi progetti per lui e per il suo Paese: il suo sogno è quello di aprire delle boutiques in tutta l'Africa dell'Est.
 
Kolbe, come tutti i suoi coetani, è l'immagine del nuovo Ruanda, quello che vuole ma non può dimenticare il passato, che deve costruire nuove fondamenta su delle macerie piene di lacrime e sangue, quelle dei loro padri, come racconta Maximilien Niyomwungeri, che in questi giorni di commemorazone ricorda suo padre, giornalista ucciso durante le rivolte. 
 
Maximilien, Kolbe, Emmanuel, Marie-Claire sono i prototipi dei nuovi cittadini che il Ruanda deve e vuole promuovere, giovani con idee nuove e propositive per far rinascere una terra piena di potenzialità e spesso e volentieri dimenticata dall'Occidente perchè troppo lontana. Giovani senza un orientamento politico, né destra né sinistra, né Hutu né Tutsi, solo rwandesi. E lo gridano forte, anzi lo rivendicano. 
 
 
C'è anche chi, come Emmanuel e Marie Claire, prova vergogna perchè sono stati i loro padri a commettere il genocidio. Emmanuel, con la voce rotta ha raccontato a Le Monde che dopo questa scoperta lui ha sempre vissuto con "la vergogna e la disperazione nel cuore". Ma emerge anche la rabbia, "tanta rabbia che prova verso un padre che non ama", non può amare, che ha compromesso i suoi studi, la sua educazione, la sua crescita. Emmanuel è infatti caduto nel vortice della droga e la sua vita ha perso di senso
 
 
Non si tratta di un caso isolato, come testimonia la psicologa Assumpta Muginareza, tutti questi ragazzi hanno in comune una cosa: il trauma; e putroppo nella maggioranza dei casi il risultato è stato la droga, l'alcool o problemi di salute mentale
 
E come non capire, la storia di Marie Claire è terrificante; la giovane ragazza non ha mai conosciuto suo padre perché in realtà non ha un padre: sua madre è stata violentata durante le rappresaglie. Va da sé il trauma subito, prima quello di non conoscere suo padre, poi la scoperta, poi il senso di colpa nei confronti di una madre umiliata e violata; senza tralasciare gli ostacoli, che seppur possono apparire banali hanno lasciato i loro segni, che ha dovuto subire a scuola quando veniva presa in giro per la mancanza del genitore o quelli che incontra ora che ha terminato i suoi studi e cerca un lavoro che non arriva; non ha neppure diritto a un sostegno economico (i supersititi lo ricevono), ma lei non appartiene a quel gruppo, viene definita "figlia di un uccisore", e lei non vuole più sentire parlare di divisione. Ma solo di Ruanda, un Ruanda unito
 
 
La situazone in Ruanda è decisamente migliorata, le stesse autorità tentano di bandire dalla sfera pubblica tutti i riferimenti a differenze razziali o di identità, ma ciò su cui deve e stà puntanto il Ruanda sono i giovani che forti (e profondamente segnati) dal loro passato pensano solo al futuro fatto di lavoro, tecnologia e progresso, al di là di differenze e divisioni. 
 
Come affermano Maximilien e Kolbe, per loro le differenze fra Hutu e Tutsi non esistono, sebbene siano consapevoli di come tale questione etnica abbia segnato il paese e le mentalità, comprese quelle dei loro genitori. Maximilien in un'affermazione molto forte ("Io sposerei senza problemi una donna Hutu, ma so che questo ferirebbe mia madre") mostra come in realtà la ferità non sia del tutto chiusa ma al contrario estremamente profonda e radicata nelle coscienze, in particolare di coloro che hanno vissuto quel periodo. 
 
Rimane infatti un problema aperto e come spiega lo stesso direttore del centro sulla gestione dei conflitti dell'unversità del Ruanda, Paul Rutayisire, a tuttoggi la storia del Ruanda non è insegnata nelle scuole. Si tratta di un problema di memoria collettiva, di un passato tragico che non è facile da spiegare senza estremizzare le posizioni e porsi dalla parte del vincitore (più difficlmente da quella del perdente), mentre quello che servirebbe è una lettura del tutto oggettiva del prima, del durante e del dopo che forse i ruandesi, in fase ancora di guarigione, non sono pronti a fare. 
 
Come racconta Alice, una studentessa, i suoi stessi genitori non hanno mai parlato spontaneamente di quel periodo, e lei ha sempre evitato di fare domande. Anche gli anziani non ne parlano, un po' per vergogna e un po' per il dolore che ancora provoca in loro. 
 
Ma come ben dice Maximilien, loro sono i giovani e possono o scegliere di vivere nel passato o scegliere di costruire il futuro, il loro futuro, rendendo migliore anche quello delle loro famiglie.
 
 
Ed è questo che sta facendo la nuova gioventù ruandese, sì depositaria di una storia tragica dove ognuno ha deposto i suoi morti e le sue sofferenze, dove si sono perse le proprie radici e identità, storia dimenticata vergognosamente un po' da tutto il mondo, ma sopratutto proiezione di un futuro che sarà migliore, forte del proprio passato, che avrà come protagonisti i ragazzi che si sono ritrovati a metà percorso fra la vita e la morte, fra il presente e il passato, fra l'agire e il ricordo. E che, con forza, stanno optando per le prime.  
 
 
Foto: Le Monde/Carl de Keyzer - Flickr/Cliff

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