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Ripensare l’approccio alla rete e al suo significato

Da qualche settimana seguo la protesta, nata tuttavia ben prima, contro la delibera Agcom sul diritto d'autore. Ne ho letto il testo e ho cercato di comprenderlo. Ho letto le critiche di quelli che l'Authority ha definito «arruffapopolo» e compreso che non solo meritavano più rispetto degli insulti che hanno ricevuto in risposta, ma che erano posizioni fondate nel merito e nella sostanza. Più di quelle dei commissari Agcom.

Poi mi sono chiesto che cosa avrei potuto fare per spiegare ai lettori perché, data la bontà di quelle ragioni, la delibera rappresenti un pericolo per la libera espressione online. Interviste, approfondimenti, raccolte di pezzi altrui: ho fatto tutto il possibile. E non sono stato certo l'unico. Anzi. Molti, ben più competenti di me, hanno sviscerato tutti gli aspetti legislativi per dubitare, per esempio, che l'Agcom detenga il potere di intervenire su una materia tanto delicata saltando a piè pari il Parlamento e l'autorità giudiziaria in un colpo solo. Altri hanno rivolto una serie di domande mirate e implacabili sulla fattibilità tecnica ed economica del progetto, oltre che sulla sua stessa opportunità. Altri ancora hanno organizzato petizioni, proteste a suon di palloncini, incontri fuori e dentro alla Rete.
 
È stata una reazione forse tardiva, ma c'è stata. C'è chi ha scritto che, visto l'entusiasmo per i risultati delle amministrative e dei referendum, il web avrebbe potuto fare di più, soprattutto in termini di numeri. Può darsi: ma cambiare un'amministrazione sgradita o evitare di trovarsi una centrale nucleare sotto casa (e con entrambe le cose dare una botta a Berlusconi) forniscono un appiglio ben più saldo all'indignazione rispetto a una delibera sul diritto d'autore. C'è anche chi ha sottolineato l'ipocrisia di una politica (e di una certa società civile) sempre pronta a salire sul carro del proselitismo e sempre altrettanto pronta, una volta esaurita la spinta verso il consenso, a scendere dal carro e riprendere come nulla fosse. Ed è vero, verissimo: il problema di fondo, in questo Paese digitalmente arretrato, è culturale.
 
Solo una reiterata mancanza di curiosità e considerazione può far sì che, ciclicamente, la rete sia costretta a mobilitarsi per svegliare la politica, metterla sull'attenti rispetto a progetti che, vuoi per ignoranza, vuoi per malafede, rischiano di avere conseguenze censorie o frenanti per lo sviluppo del digitale. Farla rinsavire, insomma, fino al prossimo misto di torpore e obbedienza agli interessi di chi detiene forti rendite di posizione nel settore. È accaduto con il decreto Pisanu, l'emendamento D'Alia, il comma ammazza-blog del ddl Alfano e con il decreto Romani, solo per citare alcuni degli esempi più recenti. Finora la protesta ha funzionato, ma per quanto si può andare avanti a questo modo?
 
E mentre le battaglie hanno lasciato sul campo il cadavere dello sviluppo tecnologico del Paese, immobile e stabilmente nelle retrovie delle principali statistiche internazionali, i media tradizionali faticano a trascinare il dibattito pubblico sui temi che davvero andrebbero discussi da una platea la più ampia possibile. Temi su cui si gioca il futuro di tutti noi: come mutare il concetto di diritto d'autore garantendo la massima libertà di espressione possibile e allo stesso tempo remunerando in modo adeguato i produttori di contenuti? Come rapportarsi in modo consapevole con l'intrusività nella nostra privacy dei social media? Come distinguere il dissenso dall'odio, i ragazzini che rendono inaccessibile per qualche minuto un sito istituzionale da un criminale informatico che ruba dati sensibili e li pubblica indiscriminatamente online, il giornalismo di WikiLeaks dal puro e semplice sfregio di LulzSec? E, in tutto questo, che ne è della bellezza, dell'ozio, di quella lentezza che tanti, in tutte le epoche, hanno elogiato e di cui oggi è sempre più difficile godere?
 
Credo che tutto questo sia contenuto nell'opposizione alla delibera Agcom di queste settimane. O meglio: che sia possibile affrontare quella opposizione come un'occasione per ripensare il nostro approccio alla rete e al suo significato. E che sia auspicabile. Documentandosi, riflettendo. Documentando e facendo riflettere. Senza lasciare che la retorica del «bavaglio» prevalga. Perché c'è molto di più, in gioco. Si tratta dell'idea di convivenza in Rete che questo Paese vuole esprimere. Ne vogliamo discutere tutti insieme, giornalisti, attivisti, politici e semplici cittadini, prima che il potere riesca non solo a proporre, ma anche a imporre le regole che gli sono più congeniali?

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