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Ripartite da Istanbul

Scopo di questo racconto è evidenziare il differente approccio del popolo turco alla lotta, testimoniando le diverse forme di protesta che è riuscito a mettere in atto, con un modo di fare estremamente moderno, pulito, affascinante che ha tanto da insegnarci.

Ho già avuto modo di parlare del mio viaggio a Istanbul, tramite una breve video intervista-documentario che ho girato in quei giorni intensi, durante la lotta per la difesa del Gezi Park.

Scopo di questo racconto è evidenziare il differente approccio del popolo turco alla lotta, testimoniando le diverse forme di protesta che è riuscito a mettere in atto, con un modo di fare estremamente moderno, pulito, affascinante che ha tanto da insegnarci. Come si evince dal video, sono riuscito a trovare un contatto locale, Evren, una donna coraggiosa (che non finirò mai di ringraziare), conosciuta su Facebook qualche giorno prima, disposta ad aiutarmi per il supporto logistico ma soprattutto per farmi conoscere i resistenti turchi. Così, senza pensarci troppo ho preso i biglietti dell’aereo e sono partito.

 

Dentro di me

La paura era tanta, non posso nasconderlo. Ma era tanta anche la volontà di capire meglio cosa accadeva a Istanbul in quei giorni. La repressione della polizia era cieca ed indiscriminata: cannoni ad acqua, lacrimogeni sparati ad altezza uomo, migliaia di fermati, e soprattutto nei giorni precedenti avevano arrestato due fotoreporter italiani colpevoli solo di essere lì. Conosco bene il comportamento della polizia italiana, saprei come muovermi, l’ho fatto per anni, e poi quando si è nel proprio paese, è tutto molto più semplice. Che cosa sarebbe accaduto in un paese lontano (sotto tanti punti di vista) come la Turchia?

Così decisi di trovare alcuni compromessi con le mie paure. Il tele 70-200 della Nikon era pesante e troppo visibile, rischiavo troppo, pertanto nello zaino oltre a tutta l’attrezzatura reflex ci misi anche una compatta leggera e potente. Avevo comunicato sul sito della Farnesina la mia presenza a Istanbul e tutti i miei contatti, e soprattutto avevo configurato il mio iphone per far sapere in tempo reale dove fossi, attraverso il servizio di localizzazione della Apple (quello usato per ritrovare il device perso o rubato). Infine mi sono messo d’accordo con Evren per uscire dalle situazioni calde qualche minuto prima che si surriscaldassero troppo, e così è effettivamente successo.

Istanbul merita un post a parte: rapisce, eccita, rilassa, e ha la capacità di farti tornare a casa diverso. Per sempre. Qui invece vorrei parlare dei turchi perché credo che abbiano tanto da insegnarci.

 

Flashback

Lasciavo un paese, l’Italia, uguale a se stesso, da almeno duecento anni. I soliti scioperi sindacali di 4 o 8 ore, le solite polemiche sul numero dei partecipanti, per poi tornare a parlare di altro. Qualche manifestazione animata dai cosiddetti antagonisti, qualche auto bruciacchiata, e tante inutili polemiche suoi giornali del giorno dopo: perché da una parte vogliamo tutti che il popolo si incazzi e se poi lo fa, è sempre troppo. Se la rivolta, anche violenta, è in atto in un altro paese, al bar la commentiamo positivamente, se ce la ritroviamo in casa ci basta etichettare i “violenti” con termini come “black bloc” e il gioco è fatto. That’s Italy.

 

Flashforward

Ora c’è il movimento del 9 Dicembre (cosiddetto dei “forconi”) dove i partecipanti sono tutti accomunati dal disagio di questa terribile crisi, ma senza un’idea chiara in testa. Invece, le idee chiare su come speculare su tanta confusione, le hanno i soliti fascistelli, che – in quanto tali – per me non meritano una parola di più. Ma se il popolo è confuso e non si esprime con il linguaggio caro alla sinistra, allora gli stessi atti di forza (qualche vetrina rotta) fatti un giorno prima dai compagni antagonisti, diventano espressione di fascismo se compiuti da persone che non hanno una identità sinistroide. La verità è che siamo ancora tanto impregnati da un’ideologia caricaturizzata a feticcio che non ci permette di vedere le cose per come stanno: un poveraccio, un esodato, un commerciante fallito, un precario, rimangono tali anche se non conoscono il dizionario del “perfetto resistente di sinistra”.

 

Welcome to Istanbul

Atterro a Istanbul e mi viene a prendere Evren, abbiamo modo di conoscerci durante il viaggio che ci porta in città. “Siamo a due passi da Taksim Square”, mi dice, e il cuore mi batte forte perché fino a due ore prima quel nome era per me sinonimo di quella bellissima primavera turca dove con la scusa della difesa di un parco, erano riusciti in poco tempo a montare una protesta bella, pulita, emozionante, così tanto affascinante da convincermi ad alzare il culo (e ce ne vuole) per venirla a vedere di persona. Evren è simpatica, interessante, una bella persona, sono stato veramente fortunato se penso al fatto che ci eravamo conosciuti su un social network, tramite un contatto in comune, solo qualche giorno prima.

 

Le tre lezioni imparate a Istanbul

Sono almeno tre le lezioni imparate a Istanbul in quei giorni e credo che sia doveroso da parte mia parlarvene. Ma siccome non sono un giornalista e mi piace semplicemente raccontare storie lo farò descrivendovi alcuni aneddoti, per ogni lezione imparata, che ho visto con i miei stessi occhi.

 

Prima lezione: la lotta o è inclusiva o non è lotta. La città era messa a ferro e fuoco, i blindati della polizia venivano da tutte le parti per raggiungere Taksim Square, uno però non poteva muoversi nonostante le sirene spiegate, perché davanti aveva una piccola FIAT, dal modello irriconoscibile, immobile, ferma al semaforo rosso. “E’ rosso, ed io non mi muovo, cazzo!”, avrà detto tra sé e sé il proprietario di quella piccola utilitaria. Si è mossa solo quando è scattato il verde, e neanche tanto velocemente. Il blindato ha dovuto aspettare e subire la resistenza attiva di quel piccolo uomo, seduto in quella piccola auto, che ha pensato di contrastare in questo modo la repressione della polizia. Secondo aneddoto per la stessa lezione: Evren ed io eravamo in un locale a cenare in una strada piena di ristoranti, quando all’improvviso tutti, ma proprio tutti, bambini, donne, uomini, anziani hanno cominciato a picchiare con la forchetta sul bicchiere. Un incredibile frastuono risuonava per tutta la via. Il motivo? si stava avvicinando una pattuglia della polizia e quel gesto voleva far capire loro che non erano graditi da quelle parti. Questi due piccoli atti di disubbidienza civile ci portano dritti dritti alla prima lezione: la lotta deve essere inclusiva, tutto il popolo deve sentirsi partecipe, non ci sono alternative.

Seconda lezione: per pretendere la democrazia devi prima averla dentro. Ogni sera in un parco della città molti “resistenti” turchi si riunivano per confrontarsi sui fatti accaduti e sul futuro della loro costante protesta. Molti di loro portavano qualcosa da mangiare per poter offrire una veloce cena e tanto the caldo. Alcune volte organizzavano pièces teatrali per spiegare come rispondere ai poliziotti per strada o qualora fossero venuti a trovarli a casa. Ma la maggior parte delle volte semplicemente si confrontavano con una modalità che mi è rimasta nel cuore oltre che nella mente. Non c’erano leader, nessun coordinatore, solo un continuo alternarsi di interventi di 5 minuti, dove chi voleva poteva dire la propria, passandosi il microfono di mano in mano. Nessuna prevaricazione neanche durante gli interventi: per comunicare approvazione o disaccordo con quello che il resistente stava dicendo non si urlava, non si fischiava e neanche si applaudiva. Decisero che il modo migliore per farlo fosse quello di usare il linguaggio dei sordo muti: mani mosse come segno di approvazione o braccia incrociate per affermare il proprio dissenso. In questo modo chi parlava in quel momento veniva rispettato, non intimorito, e poteva avere un feedback immediato, silenzioso ma visivo del suo intervento. Da qui la seconda importante lezione: se pretendi maggiore democrazia dalle istituzioni, dal governo, devi prima di tutto averla dentro.

Terza lezione: il vero nemico da combattere è il governo, non la polizia. La repressione della polizia è sempre stata incredibilmente violenta: sono arrivati a fare rastrellamenti in alberghi a cinque stelle per andare a prendere tutti i resistenti turchi o stranieri che lì cercavano rifugio. Ci sono stati 5 morti, migliaia di feriti, più di cento persone hanno perso un occhio a causa dei lacrimogeni sparati ad altezza uomo. Prendete Genova 2001, moltiplicatela per dieci e immaginatela riprodotta ogni giorno per più di due mesi di rivolta. Un poliziotto è morto rincorrendo un resistente, quindi neanche a causa di un’azione violenta di qualcuno. Nonostante questo i resistenti commemorano anche la sua morte, lo ricordano e lo considerano una vittima di quel grande movimento di libertà e democrazia che stanno portando avanti. Nonostante la repressione violenta, il popolo turco è ben consapevole che non è la polizia il nemico da combattere, e questa è la terza importante lezione che ho imparato a Istanbul.

 

Insomma

A Istanbul ho avuto la fortuna di conoscere un popolo unito, con la democrazia nel dna e con le idee chiare su chi fosse il vero nemico da combattere. Erdogan è ancora lì, ma non è vero che non è cambiato niente. Sono cresciuti insieme, hanno avuto modo di conoscersi, di sperimentare nuove forme di lotta, di contarsi e capire dai propri errori. Tutto questo senza avere alcun partito alle spalle (hanno anche loro un simil PD inutile e dannoso), ma soprattutto senza escludere nessuno. Spesso e volentieri è il linguaggio usato che isola e ghettizza una parte della popolazione. Il popolo deve essere coinvolto non spaventato, deve sentirsi partecipe del cambiamento. Nei forum sopra citati ho visto tantissimi anziani, bambini, donne e uomini che si organizzavano per preparare cene sociali per poter prima di tutto chiacchierare, scherzare, divertirsi, conoscersi. Infine ci vuole costanza: la lotta deve essere permanente, e bisogna uscire dalle proprie case per riprendersi la strada al fine di vedersi, contarsi, conoscersi. Non è un caso che il ruolo dei social network, in quei giorni di lotta turca, si sia limitato semplicemente a divulgare cosa accadeva e organizzarsi per l’evento locale del giorno seguente.

 

Tornato in Italia

Dopo cinque giorni sono tornato in Italia. Nel paese dove non cambia mai niente, e non mi riferisco ai politicanti che siedono in parlamento, perché loro sono noi, ci rappresentano al meglio, sono lo specchio del nostro approccio poco serio, disonesto intellettualmente, ma soprattutto arrogante e ignorante. La nostra ricerca spasmodica per un leader che ci risolva – da solo – la situazione (che sia Berlusconi o Grillo) è l’emblema del nostro totale e irreversibile fallimento. Manca la volontà di capire con onestà intellettuale qual è il vero problema, qual è la causa e qual è l’effetto. Ci vorrebbe prima di tutto un riscatto morale, la volontà di ricominciare da zero, partendo dalle esigenze del popolo, anche (e soprattutto!) se questo non sa esprimersi con il linguaggio che ci aspettiamo. Dobbiamo ripartire dall’educazione, dall’ascolto attivo delle persone, mettendo insieme la vecchietta appena uscita dalla chiesa e il giovane studente volenteroso di spaccare tutto, ma che non sa neanche cosa (e a chi) chiedere. Insomma, dobbiamo cambiare approccio, aprirci e non ghettizzarci, ascoltare, capire, essere empatici sia con chi è in difficoltà, che con i benestanti, concedere a tutti almeno cinque minuti di microfono, conoscersi in una piazza semplicemente offrendo un the caldo e smetterla di considerare differente una persona per il semplice fatto che indossi una bandiera, una divisa, o una kefiah. La vera rivoluzione non passa per un cassonetto bruciato, ne’ per le aule parlamentari. La vera rivoluzione è quella culturale che cambia prima di tutto noi stessi. Credevo che tutto questo non fosse possibile, ma una volta tornato da Istanbul mi sono dovuto ricredere.

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