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Rinazionalizzare le autostrade? Sarebbe il caso, ma non potrà avvenire

Ora che persino la Corte dei conti ha scoperto che in Italia le concessioni autostradali sono secretate (a proposito, complimenti per la reattività!), dopo anni di evidenze abnormi e grotteschi tentativi di “trasparenza”, vale la pena riflettere su cosa è il settore autostradale “privatizzato” di questo paese. La conclusione potrebbe essere scontata.

Giorni addietro, sul Fatto, è stato pubblicato un commento di Giorgio Ragazzi, già economista al Fondo Monetario Internazionale, oggi consulente nel settore privato e collaboratore del sito lavoce.info, in cui è spiegato quello che tutti hanno ben evidente davanti agli occhi: che il settore autostradale italiano, con le sue concessioni segrete, è uno scandalo che continua dai tempi delle celebri “privatizzazioni”. Uno scandalo sempre più grave ed ormai incompatibile con l’essenza di una democrazia di senso compiuto, come difficilmente è l’Italia.

I concessionari operano a rischio zero, ottenendo in cambio una rendita abnorme, grazie alla quale possono “tirare” il proprio indebitamento e galleggiare sulla liquidità, facendo shopping all’estero, tra il battimani entusiasta di molti nostri organi di stampa. Che le concessioni autostradali siano una macchina da soldi è del tutto evidente dalla natura dell’impresa, come dimostra un dato citato da Ragazzi: nei primi nove mesi del 2017, Autostrade per l’Italia ha avuto un margine operativo lordo di 1.900 milioni, a fronte di investimenti nella rete per 340 milioni.

Anche l’acquisizione delle concessioni è storicamente avvenuta quasi sempre a debito, poi ripagato dai flussi di cassa. Così fece storicamente l’Iri, del resto. La natura del business è questa, è una utility, del resto. Di fatto, lo Stato italiano ha regalato ai concessionari una enorme rendita, poi allargata mediante un regime regolatorio molto generoso e con reiterate proroghe non onerose delle concessioni.

Che fare, quindi? Secondo Ragazzi,

«L’unica, semplice e naturale via d’uscita è quella di non rinnovare le concessioni in scadenza»

Sembra incredibile, ma ci sono quindi situazioni in cui la gestione in house sarebbe preferibile per le casse pubbliche (prescindendo dalle abituali malversazioni di specie in queste circostanze), perché

«Quando un’autostrada è stata ammortizzata, il pedaggio diventa per lo più un’imposta, ed è meglio allora che lo riscuota lo Stato piuttosto che le concessionarie; esazione e manutenzione possono essere affidate per gara ad imprese private, con evidenti benefici per la concorrenza. Un caso concreto ed immediato è quello per le concessioni già scadute per l’Ativa e la Torino-Piacenza. Entrambe sono ampiamente ammortizzate e non necessitano di rilevanti nuovi investimenti: perché offrirle di nuovo in gara al gruppo Gavio?»

C’è da dire che le concessionarie, avvertite di questo assai teorico rischio, tendono a proteggersi costruendo opere aggiuntive del tipo bretelle e passanti, a fronte delle quali ottengono la proroga della concessione di alcuni anni e soprattutto robusti indennizzi di subentro, basati su numeri purtroppo mediamente realistici di costo medio ponderato del capitale, cioè il mix tra equity e debito, anche se le opere sono finanziate quasi sempre a debito ed autofinanziamento (ma esiste l’ovvia constatazione del costo opportunità di quest’ultimo, che giustifica la metodologia seguita). Questa situazione di fatto esclude la possibilità per lo Stato di riprendersi l’opera infrastrutturale, come Ragazzi stesso ha evidenziato.

Se le cose stanno in questi termini, visti anche gli orizzonti temporali lunghissimi sui quali stiamo ragionando, il bubbone delle concessioni autostradali appare per quello che è: il perfetto manifesto di come non si deve fare una privatizzazione.

Utile anche ricordare che, quando tale privatizzazione di potere monopolistico avvenne, fu perché lo Stato era ritenuto privo di mezzi propri per finanziare le grandi opere, dopo decenni di spesa pubblica disfunzionale, e serviva abbattere lo stock di debito accumulato. Ed all’epoca non c’era alcun euro, a coartare il nostro meraviglioso modello di sviluppo. La storia si ripete.

Foto: Instagram

Questo articolo è stato pubblicato qui

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