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Replay di un concerto, ma non delle emozioni: un inedito Samuele Bersani

Il concerto di Samuele Bersani e Orchestra della Magna Grecia nel piccolo auditorium del conservatorio di Matera, dopo il debutto tarantino

Incontro con il cantautore

Sta tutto in un “Replay”, fatto di fotogrammi e tracce di armonie leggere, il concerto di Samuele Bersani con l’Orchestra della Magna Grecia diretta dal Maestro Antonio Palazzo, replicato a Matera dopo il debutto tarantino. Nel piccolo auditorium del conservatorio di Matera, per un’ora e mezza, è sembrato che le parole che Bersani usa come fossero pastelli di cera su fogli d’album appena ruvidi, fossero volate via dal leggio.

Quasi si vedevano planare in un gioco di rimandi tra archi, percussioni e gli sbuffi leggeri dei fiati dell’orchestra stipata sul palcoscenico, divertita quanto il pubblico nell’ascoltare le divagazioni dell’artista intento a recuperare un’immagine molto meno seriosa e goffa di quella che alle volte ha lasciato credere. Ancora una volta un piccolo capolavoro la fusione dell’orchestra nella sua formazione classica con la musica d’autore. L’orchestra anticipa, sottolinea, conduce i brani musicali rendendoli piccoli camei di un percorso artistico che ha ceduto volentieri la stentorea notorietà commerciale a vantaggio di uno stile sofisticato. 

Samuele Bersani lo incontro dopo il concerto, ha smesso la giacca e il gilet decisamente teatrali per un semplice pullover nei toni del marrone e grigio, ha sempre gli occhiali, si scusa per l’ennesimo fazzolettino di carta che appallottola voltandosi appena, sul tavolo un piatto con dei mandarini. Aveva iniziato il concerto con una scanzonata autodifesa del cantante raffreddato per poi concedersi piccole pause terapeutiche che nulla o poco hanno tolto alla sua verve musicale. Lo finisce, il concerto, con la registrazione dal vivo di “Giudizi Universali” che ripete chiedendo al pubblico di intervenire.

Quando gli sono di fronte mi chiedo se non abbia sbagliato camerino: in auditorium Bersani dominava l’orchestra con la sua voce e la figura sempre in movimento, il gesto ritmico delle mani, la risata coinvolgente, lo scrollare delle spalle per tutte le volte che sentiva il pubblico accordarsi sulle sue stesse frequenze. E’ minuto, invece, sembra piuttosto un liceale tradito da qualche filo grigio tra i capelli neri. E si presenta, porgendo la mano. Durante il concerto ha spiegato il senso di alcuni suoi testi poco circolari, scritti piuttosto come una concatenazioni di immagini disegnate con le idee. Le sue canzoni appaiono alla maniera di monologhi dell’anima, sedute mancate di psicoanalisi in cui “chi ascolta si riconosce. C’è qualcosa di misterioso nello scrivere e far sì che gli altri sentano le stesse emozioni di chi scrive”.

Danno l’idea di essere scritte con una sorta di plastilina del linguaggio che si modella sui dolori altrui, parole che restano appiccicate ai ricordi di ciascuno e li rendono più leggeri. Come tutte le volte che una canzone si veste di poesia, probabilmente. Lo scambio di convenevoli dura molto poco, riducendosi ad una breve altalena di informazioni sugli acciacchi reciprochi. Ha gli occhi di un nocciola molto chiaro, tanto che di colpo mi sembrano più importanti del resto. Ecco il momento in cui immagino di inciampare tutte le volte: di fronte non c’è l’artista, ma l’uomo che malgrado l’influenza, il concerto e l’imminenza dell’ennesima partenza, si concede paziente. Riduco per rispetto le mie tre domande ad una sola, anzi alla conferma di una ipotesi evidente, trattenendomi dal mettermi lì a chiacchierare di filosofia e sguardi trasversali sul mondo.

Tu sogni tanto, vero?

Mi fissa perplesso, chissà che si aspettava gli domandassi, e poi mi chiede se intendo ad occhi chiusi. Annuisco e lui accenna ad una spiegazione quasi scientifica rispetto alle ore di sonno per poi virare nella risposta secca.

Sogno molto, sì. E c’è molto nelle mie canzoni, ma non posso metterceli tutti i sogni altrimenti le canzoni sarebbero settecentomila…

Infatti sono come i sogni le scene che, la sua musica, imprime in chi ascolta. Pare di vederle le sue canzoni: sono piccole polaroid estratte da un cassetto, sparpagliate alla rinfusa su di un tavolo e rimesse in ordine per tentare di venire a capo di sentimenti abbandonati, dignità violate e speranze disattese come nell’incantevole “Barcarola Albanese” o per tutte le volte in cui l’amore sembra più fatto di brace ardente e delusione che di tenero struggimento. Nel frattempo l’orchestra è tutta stipata in una serie di astucci neri a tracolla di musicisti che si salutano ed escono per strada. Solo il Direttore non è ancora andato via e riesce di salutarlo. Il concerto, del resto, era per voce e orchestra, anzi per poesia, garbo e orchestra.

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