• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cronaca > Referendum o non referendum, l’acqua ha sete di capitali (anche (...)

Referendum o non referendum, l’acqua ha sete di capitali (anche privati)

Se sui due quesiti referendari sulla privatizzazione della gestione dell'acqua e sulla determinazione delle tariffe dovessero prevalere i no, si andrebbe presumibilmente ad una graduale ma progressiva espunzione delle società pubbliche in questo settore che diventerebbe appannaggio delle società private o di quelle miste pubblico-privato, con una partecipazione dei privati non inferiore al 40 per cento.

Mano a mano che ci si avvicina all'appuntamento referendario spuntano sempre più frequentemente sugli scaffali delle librerie saggi e pamphlet militanti che ora esecrano ora esaltano il ruolo del privato in questo particolare settore dei servizi pubblici. Si tratta perlopiù di interessanti e godibilissimi esempi di aneddotica volti ad enfatizzare i case studies che confortano la propria tesi e visione del mondo e a celare quelli che tale visione mandano in frantumi. A questo genere si sottrae Privati dell'acqua? Tra bene comune e mercato di Antonio Massarutto, docente di Politica economica ed Economia pubblica all'università di Udine nonché Direttore di ricerca all'Istituto di economia e politica dell'energia e dell'ambiente alla Bocconi.

Offrendo valutazioni comparate dei diversi modelli, Massaruto mostra come i risultati degli studi empirici non siano nient'affatto univoci e non possano quindi concludere né a favore né contro la soluzione della privatizzazione. Se nei Paesi emergenti alta è la frequenza con cui si arriva prima della loro scadenza alla risoluzione dei contratti con i concessionari, spesso multinazionali, in Cina e nel Sud-Est asiatico, nei Paesi dell'Europa orientale come anche in alcuni dell'America Latina i contratti con società private hanno consentito un considerevole recupero dell'efficienza produttiva rispetto alla disastrosa gestione pubblica precedente l'affidamento.

Questo quadro internazionale non porta però l'A. ad affermare l'opportunità che sia esclusivamente il mercato a provvedere alla fornitura del servizio idrico. Questo, infatti, rappresenterebbe un classico esempio di "fallimento del mercato", caratteristico di molti settori infrastrutturali a rete; il mercato, infatti, "investe nei segmenti di mercato più redditizi, ma non è in grado di sostenere economicamente ilservizio universale[...] ossia, non è in grado di portare le reti dovunque ci sia un potenziale soggetto interessato ad accedervi" (p. 97). Difatti estendendo il servizio nei quartieri meno popolati o alle persone meno abbienti, aumenterebbero il costo pro capite del servizio e la probabilità di avere a che fare con utenti morosi. Se il gestore, per evitare l'inadempienza contrattuale dei clienti, decidesse di praticare tariffe più miti, procrastinerebbe il giorno del rientro dal suo investimento iniziale. Difficilmente un privato si deciderebbe a questo passo, con il rischio che nel frattempo mutino altre variabili condizionanti la sua attività economica.

Se quindi Massarutto non sposa l'idea di affidare tout court la gestione dell'acqua al privato, non concorda neanche con chi, come gran parte del fronte referendario, ritiene di dover estromettere dal settore la figura della Spa e addirittura la remunerazione del capitale investito, come vuole il secondo quesito referendario sull'acqua. L'ala più radicale, infatti, vorrebbe che il servizio idrico sia fornito solo da soggetti di diritto pubblico, privi di capitale proprio, finanziati tramite la fiscalità generale, i proventi delle tariffe ed eventualmente l'indebitamento. Ma i formidabili investimenti di cui necessitano i nostri impianti idrici, ridotti spesso, come ci ricorda la cronaca, a dei colabrodo, rendono del tutto illusoria e velleitaria la convinzione che le esauste casse dello Stato e l'autofinanziamento siano sufficienti alla bisogna. Da qui la necessità per ogni gestore, pubblico o privato che sia, di ricorrere al mercato finanziario, chiedendo i soldi a prestito, e di stabilire poi una tariffa che copra anche il costo di quel prestito. Certo, il fatto che il rendimento del capitale investito sia fissato da un regolamento del 1996, mai aggiornato, al 7% senza vincoli di reinvestimento è abbastanza sconcertante ma per ovviare a questo problema sarebbe sufficiente modificare il metodo tariffario come la stessa legge prescrive. Inoltre, si domanda l'A., "anche ammesso di trovare le risorse nella fiscalità generale, chi le gestirà? Soggetti che saranno ritornati saldamente in mano alla politica? Con tariffe fissate dalla politica senza riguardo ai costi aziendali?" (p. 213). La gestione e la fornitura dei servizi idrici, insomma, sono diventati oggi delle attività industriali particolarmente complesse che impongono decisioni celeri e salde catene di comando (oltreché organi di regolazione indipendenti fino ad oggi inesistenti) per le quali il diritto civile è sicuramente più confacente di quello pubblico. Questo non comporta necessariamente che i fornitori dei servizi idrici siano dei privati ma che essi si adattino ai modelli privatistici e che soggetti privati intervengano nella gestione dei servizi stessi, prima di tutto i provvidenziali mercati finanziari con i loro capitali da investire.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares