• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Economia > Reddito di cittadinanza e miraggi privati

Reddito di cittadinanza e miraggi privati

Tutti vorremmo credere al proiettile d'argento per il collocamento dei beneficiari del reddito di cittadinanza. Ma le cose stanno altrimenti.

 

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

l’ideona spesso ricorrente in Italia è che se i centri pubblici per l’impiego funzionano poco e male, invece di fare in modo di renderli efficienti, meglio lasciarli languire nella loro scarsa funzionalità.

Non fa eccezione a questo bizzarro modo di concepire la funzione dei servizi pubblici e la loro organizzazione (per altro piuttosto in contraddizione con le indicazioni del PNRR) il Governo, che, per voce della sottosegretaria al lavoro Tiziana Nisini ed il tramite dell’articolo di Francesco Bisozzi “Stop ai centri per l’impiego arrivano le agenzie private” sul Messaggero del 2.9.2021, enuncia la soluzione al problema del reddito di cittadinanza: mettere i centri per l’impiego “in panchina” ed avvalersi delle agenzie private, per spingere i beneficiari ad accettare anche lavori di due mesi.

Come non averci pensato prima?

Come dice, Titolare? La affascinano sempre le soluzioni semplici ai problemi complessi? In effetti, l’articolo sopra ricordato è un distillato di consigli e indicazioni tale da far chiedere a chiunque perché non averci pensato prima.

Andiamo ai centri per l’impiego. Nell’articolo si riporta il pensiero della sottosegretaria, secondo la quale “Al momento il reddito di cittadinanza è strutturato affinchè le offerte di lavoro provengano dai centri per l’impiego”. Prima affermazione imprecisa: l’offerta di lavoro, che poi nella realtà è la domanda (sono i lavoratori che offrono lavoro e le imprese a domandarlo) proviene solo dalle imprese.

I centri per l’impiego, semmai (e come loro le agenzie private) intermediano domanda ed offerta. Nel caso del reddito di cittadinanza, ai centri per l’impiego è stato affidato il compito di sottoporre ai beneficiari le domande di lavoro provenienti dalle imprese, mediante i navigator; nulla impedisce comunque ai lavoratori di cercare autonomamente ed alle imprese di attingere anche loro autonomamente alle candidature spontanee anche dei percettori del reddito.

L’articolo prosegue nel riportare le dichiarazioni della sottosegretaria:

Ma quando si scorrono i dati si scopre che questi ultimi [i centri per l’impiego] statisticamente offrono il 4% delle opportunità lavorative l’anno. Esiste, quindi, un 96% di opportunità lavorative gestite dal mondo privato attraverso le agenzie per il lavoro al quale bisogna attingere.

Proiettili d’argento privati

E qui le imprecisioni si moltiplicano. Intanto, scopriamo con piacere che l’efficacia dei centri per l’impiego sale dal tanto decantato 2% o 3% nientemeno che al 4%. Non si è mai saputo questa percentuale chi l’abbia determinata e sulla base del rapporto di quali dati. Ma, comunque, rispetto alla narrazione se ne registra un sostanzioso incremento.

Peccato che i centri per l’impiego non “offrono” il 4% delle opportunità lavorative, ma semmai ne intermediano con successo, cioè fino all’assunzione tale percentuale. Di opportunità i centri per l’impiego ne “offrono” molte di più: poi, lavoratori e imprese decidono se piacersi o meno e sottoscrivere un contratto in totale libertà e autonomia.

Ma, il dato clamorosamente meno sostenibile è quello secondo il quale il restante 96% delle opportunità lavorative sarebbe gestito dai privati attraverso le agenzie. Magari, verrebbe da dire, Titolari. Magari il mercato del lavoro italiano fosse così trasparente ed organizzato da far passare per canali strutturati ed ufficiali l’incontro domanda/offerta.

Purtroppo, non è affatto così. L’opacità dei meccanismi di attivazione dei rapporti di lavoro è uno dei mali principali del mercato del lavoro italiano, nel quale le aziende privilegiano il fai da te nella ricerca dei lavoratori, prevalentemente individuati col circuito “amicale” o del “lavora con noi”, escludendo intermediatori pubblici e privati e mortificando ed impoverendo il mercato sul lato della domanda.

Che dicono le comunicazioni obbligatorie

Affermazioni avventate? Non diremmo. Guardiamo il Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie 2020 del Ministero del lavoro e curiosiamo.

Come Le è noto, Titolare, le Comunicazioni Obbligatorie incombono sui datori che attivano rapporti di lavoro e li gestiscono (trasferimenti, cessazioni, ecc…), comunicando questi dati ai sistemi informativi regionali e nazionali.

Nel 2019, secondo il rapporto, sono stati attivati 11,8 milioni di rapporti, ai quali aggiungere altri 1,4 milioni di somministrazioni, per un totale di 13,2 milioni di attivazioni. Le somministrazioni sono quel che nel parlar comune si intende per “lavoro interinale”. Ricordiamo che le somministrazioni sono consentite esclusivamente alle agenzie, cioè ai privati.

Facciamo un primo rapporto: le somministrazioni hanno costituito, nel 2019 il 10,6% del totale delle attivazioni. Pare di poter affermare, sulla base di complicati e sofisticati algoritmi di calcolo, che tale percentuale sia lontanissima dal 96% evocato dalla sottosegretaria.

Ma, attenzione, Titolare. Le attivazioni non corrispondono, poi, esattamente, alle teste dei lavoratori attivati. Il Rapporto (paragrafo 1.1.1.) ci spiega che il numero dei rapporti attivati per ogni lavoratore è pari a 1,36 circa. Quindi, vi sono più comunicazioni obbligatorie che lavoratori interessati, perché uno stesso lavoratore può essere assunto più volte nello stesso anno, perché licenziato e ricollocato o perché transita da un lavoro a termine ad un altro.

Somministrazioni e moltiplicazioni

Il fenomeno della moltiplicazione delle comunicazioni obbligatorie in capo ad un solo lavoratore cresce moltissimo nel mondo delle agenzie private che fanno somministrazione. Il perché è molto semplice e lo spiega, indirettamente, sempre il Rapporto:

Relativamente alla durata, si evidenzia che nel 2019 per il 63,5% dei casi il rapporto di lavoro non supera i 30 giorni effettivi: in particolare il 24% ha una durata di 1 giorno mentre poco meno del 2% dei rapporti cessati supera la soglia dei 12 mesi (Tabella 7.4). L’evoluzione del triennio 2017-2019 mostra, però, una riduzione della quota di rapporti in somministrazione di durata non superiore ai 30 giorni (dal 75% al 63,5%), contestualmente a un aumento (dal 25% al 36,4%) dei contratti con durata superiore.

Analizzando le variazioni tendenziali si osserva come il decremento delle cessazioni nel periodo 2018-2019 è riconducibile a tutte le classi di durata fino a 90 giorni, in particolare quelli fino a 30 giorni (-33,5%) con un valore massimo per i contratti fino ad un giorno (-36,7%) mentre crescono i rapporti di maggiore durata (+7,2% quelli superiori a un anno)”.

Insomma, nella gran parte dei casi, le agenzie private assicurano rapporti di lavoro di durata brevissima (nel 33% dei casi fino a massimo 3 giorni). È chiaro, quindi, che per ciascun lavoratore somministrato vi possono essere molte comunicazioni obbligatorie.

Modifiche previste

Si dovrebbero trarre due conclusioni. La prima: in effetti le somministrazioni, rispetto al totale delle attivazioni, rivelano un’incidenza dell’intermediazione delle agenzie di molto inferiore al 10% circa stimato sopra, se si guarda al numero dei lavoratori intermediati (purtroppo il Rapporto non si sofferma sul numero medio di somministrazioni per lavoratore); quindi, ci si allontana ulteriormente dal fantasmagorico 96% immaginato dalla sottosegretaria. La seconda: solo nel 36,5% dei casi le agenzie attivano rapporti di durata superiore ai 30 giorni, di cui oltre la metà non supera i 3 mesi.

Questa osservazione è dirimente, perché l’articolo del Messaggero riporta l’intenzione del Governo di ridurre da 3 a 2 mesi la durata dei contratti che i beneficiari non potranno in futuro rifiutare. Ma che le agenzie abbiano grande capacità di proporre ai beneficiari del reddito di cittadinanza chissà quanti lavori della durata di due mesi è lecito dubitare, visti i numeri del Rapporto.

Vi sarebbero da considerare altri due fattori. Uno lo evidenzia lo stesso Francesco Bisozzi: “Circa il 70% dei beneficiari ha al massimo un titolo di istruzione secondaria inferiore”. Per lo più i beneficiari sono poco istruiti, senza esperienza di lavoro e non di rado ai margini della società.

Si tratta di categorie fragili: non a caso appunto percepiscono un aiuto economico per sollevarli da condizioni di povertà. Reperire un lavoro per soggetti che si trovano lontanissimi da una minima spendibilità nel mercato è operazione disperata, sia che sia tentata dai centri per l’impiego pubblici, sia che sia svolta dalle agenzie private, le quali, per altro, negli anni si sono specializzate nell’avviare al lavoro persone spendibili e ben formate, per assicurare alle imprese piena efficienza: non hanno, quindi, molta confidenza con la trattazione di casi di difficile collocazione.

Le imprese non sono certo disponibili ad assumere chiunque, percettore o non percettore del reddito, sul presupposto di un contratto di breve durata, specie quelle del sistema Horeca: hanno bisogno di gente capace, abituata al lavoro e ai turni, non si può improvvisare.

Offerte congrue, si fa per dire

Il secondo elemento da tenere presente è che l’attuale normativa non collega le eventuali sanzioni ai beneficiari, fino alla decadenza, al rifiuto di una proposta di lavoro connessa alla durata. La sanzione scatta solo se sia loro proposta una cosiddetta “offerta congrua”, composta dai seguenti elementi:

a) coerenza con le esperienze e le competenze maturate;

b) distanza dal domicilio e tempi di trasferimento mediante mezzi di trasporto pubblico; in particolare per il Reddito di cittadinanza, nei primi dodici mesi di fruizione del beneficio, è congrua un’offerta entro cento chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile nel limite temporale massimo di cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici, se si tratta di prima offerta, ovvero entro duecentocinquanta chilometri di distanza se si tratta di seconda offerta, ovvero ovunque collocata nel territorio italiano se si tratta di terza offerta; decorsi dodici mesi di fruizione del beneficio, è congrua un’offerta entro duecentocinquanta chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario nel caso si tratti di prima o seconda offerta, ovvero ovunque collocata nel territorio italiano se si tratta di terza offerta; in caso di rinnovo del è congrua un’offerta ovunque sia collocata nel territorio italiano anche nel caso si tratti di prima offerta;

c) durata della disoccupazione;

d) retribuzione superiore di almeno il 10 per cento rispetto al beneficio massimo fruibile da un solo individuo, inclusivo della componente ad integrazione del reddito dei nuclei residenti in abitazione in locazione (cioè 780 euro).

Dovrebbe apparire chiaro che questi elementi rendono praticamente impossibile la proposizione di un’offerta congrua e che, simmetricamente, immaginare che una persona in condizioni di povertà possa sostenere trasferimenti di centinaia di chilometri per svolgere attività lavorative di pochi mesi e probabilmente poco retribuite è solo velleitario.

L’analisi di pochi dati e della norma indurrebbero a concludere che per rendere efficienti i sistemi, su di essi occorre investire, agendo sulle regole, rendendole semplici e realistiche. Ovviamente, la strada che pare si voglia seguire è solo, come sempre, quella degli slogan.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità