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Quirinale: Prodi ha prevedibilmente fatto flop

Ma chi l'avrebbe detto mai!

Non era affatto difficile pronosticare che la candidatura Prodi, proposta di evidente rottura dell’atmosfera super partes in cui dovrebbe maturare l’elezione del Presidente della Repubblica, sarebbe andata incontro a fallimento.

Non era difficile pronosticarlo perché Prodi è figura emblematica dell’unità “interna” del PD, di cui è stato lo storico ideatore e fondatore, ma rivelatrice dell’assenza totale di una prassi di rapporto con le altre due formazioni, pressoché equivalenti, con cui il partito a guida bersaniana si deve, purtroppo per lui, confrontare. Vi sareste mai immaginati che Berlusconi avrebbe potuto votare il suo nemico storico? O che Grillo cedesse all’elezione del traghettatore dell’Italia nell’aborrito euro?

In questa situazione la proposta della coesione interna del Partito Democratico, attraverso la riproposizione del suo leader di un tempo che fu, aveva più il sapore di un ripiegamento un po’ onanistico su se stessi, nello stile veltroniano del “noi andiamo da soli”; momento tragico della sinistra italiana grazie al quale il PD è stato poi ripetutamente preso a schiaffi dall’elettorato. Solo che anche oggi, come allora, la cosa non è fattibile. E dieci giorni fa scrivevo: "In conclusione il Partito Democratico sta viaggiando a tutta birra verso il muro in cui si schianterà, spaccandosi - come da tradizione della sinistra - in mille schegge".

Ieri oltre 100 parlamentari del PD sono infatti mancati all’appello e hanno affossato la candidatura dell’uomo “forte” (sic) simbolo della rottura totale e irreparabile con il PDL, ma privo anche di qualsiasi possibilità di trovare una sponda con il M5S. Così non va perché non poteva andare; la risposta è semplice e brutale. È il Partito Democratico che non va, ammesso che sia mai andato.

Così sono state bruciate sia la deriva destrorsa rappresentata da Marini che quella autarchica di Prodi; cosa che poteva sembrare una dementia praecox di Bersani, ottima per i comici (e per gli avvoltoi) che ad ogni nome impallinato pensano sempre e solo ad un tiratore strabico, ma che forse avrebbe potuto essere anche un'abile tattica da quarti di finale.

Ora ci si avvicina comunque vada alla vera fase clou. Peccato che Bersani, ormai messo alle corde da ogni parte, abbia gettato la spugna annunciando le proprie dimissioni nella serata di ieri.

Proprio ora che il PD deve affrontare la tendenza sinistrorsa che farà imbestialire tanti altri, quella cara a Grillo che continua a mandare messaggi; cioè decidersi se votare Rodotà, che equivale e calarsi le braghe politiche davanti alla rigida fermezza del M5S - il quale alla fine risulterebbe essere il vero trionfatore - oppure mettere sul rogo anche il vecchio costituzionalista calabrese pur di salvare la faccia in nome della propria autonomia: l’identità - anche quella di un carrozzone malconcio e un po’ squinternato - va difesa ad ogni costo, salvo la perdita di qualsiasi credibilità, merce già parecchio scarsa a sinistra.

E votare Rodotà potrebbe ormai avere proprio il significato di un cedimento della propria autonomia identitaria agli inflessibili aut aut dei Cinquestelle.

Il rischio di perdere la faccia è grave per il partito di maggioranza relativa; non può accettare, senza almeno un calcio (magari piccolo) negli stinchi, il candidato di punta di Grillo dopo aver tergiversato per giorni in altri mari.

È più probabile quindi che ci si stia avvicinando al Sancta Sanctorum dove i nomi non detti, quelli mai pronunciati da nessuno dei protagonisti in questi giorni, giacciono silenziosi, ma ben presenti (o almeno pensati).

Sono nomi che non possono dispiacere al partito di maggioranza relativa - almeno non a tutto - né possono far infuriare il PDL (almeno non tutto) come la provocazione Prodi; e non possono nemmeno non comparire nella top ten grillina che, se per caso non vedrà passare Rodotà, non potrà certo accettare altre proposte che non siano state votate on-line dai “cittadini”: cosa non difficile dal momento che la top ten grillina contiene un po' di tutto (tanto per cascare in piedi sempre e comunque).

Di quella lista mancano ancora Zagrebelski, Imposimato e Bonino (ma oltre non si va). E nessuno li ha mai nominati finora come candidati “possibili”.

Se il Presidente non sarà uno di loro allora vuol dire che l'impasse politica è molto più devastante di quanto non sia apparso finora (e ne appariva parecchia) e che il futuro del nostro paese sarà affidato al Cavaliere e ai suoi nuovi alleati del centro-centrosinistra ex Piddì (con la sinistra relegata ai fasti della irrilevanza per i prossimi decenni). Cosa di cui ringraziare l'impostazione rigida e arrogante di Grillo e Casaleggio che brindano alla grande vittoria di aver portato all'esplosione l'unico partito che avrebbe potuto, con molta fatica, aggregarsi alla trasformazione richiesta dal corpo elettorale.

Come sappiamo non si nomina mai, in queste giornate convulse, chi si vuole proteggere. Fare un nome è un po’ come avvicinare una fiaccola accesa alla catasta di legna secca pronta a bruciare. Sopra ci deve essere chi si vuole eliminare, non chi si vuole eleggere.

Adesso è venerdì sera, il poker continua domani, con la scheda bianca di una sinistra ormai allo sbando totale. Dovevano puntare su un nome equidistante da tutti e tre i poli e si sarebbero risparmiati le lacerazioni interne, che derivano dalle tensioni verso un governo filopidielle o filocinquestelle; ma non l'hanno capito in tempo, si direbbe. Come l'asino di Buridano non si decisero ad andare né a destra né a sinistra. E stando fermi, alla fine morirono di fame.

Adesso avranno un Presidente equidistante da tutti e tre i poli salutandolo però dalla parte sbagliata, quella dei perdenti.

Quindi buona notte, sinistra, dormi bene. Come hai fatto, peraltro, da così tanto tempo.

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