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Quel silenzio delle istituzioni per i 30 anni di Zaki

Due giorni fa, Patrick Zaki ha compiuto 30 anni. Per il secondo anno consecutivo, ha trascorso questa ricorrenza lontano dalla sua famiglia, dai suoi amici, dai suoi colleghi e docenti dell’Università di Bologna, la città che lo ha accolto e adottato nell’autunno 2019 e che ieri lo ha ricordato con l’inaugurazione della mostra “Patrick patrimonio dell’umanità”.

Per tutta la giornata, mentre Patrick – che dalla sua prigione al Cairo viene sempre a sapere ciò che si fa, e purtroppo anche ciò che non si fa per lui – ringraziava per gli auguri e, a sua volta, augurava all’Italia una buona partita contro la Svizzera abbiamo atteso che qualche voce istituzionale prendesse la parola.

Con l’eccezione di pochi parlamentari, soprattutto quelli che si sono prodigati affinché il Senato il 14 aprile votasse l’ordine del giorno in favore della conferimento della cittadinanza italiana a Patrick Zaki, c’è stato il silenzio assoluto, come aveva previsto qui Carlo Verdelli.

Come se augurare buon compleanno a Patrick Zaki rischiasse di essere equivocato come un “m’interessa”, “è una storia anche nostra”, come se si temesse ancora una volta di dare fastidio a un governo, quello egiziano, responsabile di una detenzione illegale, arbitraria e crudele che va avanti da quasi 500 giorni.

Silenzio dunque, come alcune settimane aveva raccomandato il ministro degli Affari esteri Di Maio: come se, anziché essere un prigioniero di coscienza detenuto in uno stato amico, Patrick fosse un ostaggio nelle mani di un gruppo di sequestratori coi quali si sta negoziando un riscatto.

Se quella del silenzio fosse la regola, i movimenti per i diritti umani non sarebbero mai nati. Il silenzio aiuta i regimi autoritari a fare esattamente quello che i governi, soprattutto quelli amici, dovrebbero impedire: cancellare i diritti umani.

 

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