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Quel Pakistan dimenticato: intervista a Riccardo Noury (Amnesty International)

Iman, Ittehad, Tanzeem (fede, unità, disciplina) è in lingua Urdu il motto ufficiale del Pakistan. Con più di 180 milioni di abitanti il Pakistan è il sesto stato più popoloso al mondo, il secondo per fede musulmana, il 34° per superficie con 803.940 km².

Il motto del paese non sembra essere particolarmente fortunato: in nome di una fede vengono discriminate le minoranze religiose, mentre in nome delle disciplina vengono duramente repressi giornalisti e attivisti dei diritti umani.

Secondo il sindacato federale dei giornalisti del Pakistan e il Comitato per la protezione dei giornalisti, nel corso del 2010 sono stati uccisi 19 giornalisti e alcune testate censurate. Centinaia sono le vittime tra le minoranze religiose, che risentono anche degli effetti di una delle leggi più assurde del paese: la legge contro la blasfemia.

Il Pakistan è afflitto anche da un’altra piaga, quella della violenza contro le donne e le ragazze. ‘Secondo il servizio di assistenza telefonica per le donne Madadgaar’ si legge nel rapporto annuale 2011 di Amnesty International ‘a fine novembre erano state 1195 le donne uccise. Di queste, 98 erano state anche stuprate prima di morire’. Come se questi dati non bastassero ‘il 22 dicembre, la corte federale di Shariat ha stabilito la revoca di diverse disposizioni della legge per la protezione delle donne del 2006. Il verdetto intendeva ripristinare le disposizioni dell’ordinanza Hudood del 1979, che eranoestremamente discriminatorie nei confronti delle donne‘.

A questi terribili dati si aggiungono i racconti che donne e ragazze hanno fatto agli attivisti dei diritti umani. Denuncia Amnesty nel suo rapporto: ‘Il 29 aprile, tre sorelle, Fatima, di 20 anni, Sakeena, di 14, e Saima, di 8, sono state sfigurate con l’acido, gettato loro addosso nella città di Kalat, nel Balucistan, pare per aver violato il divieto di uscire di casa senza un tutore di sesso maschile’.

Pochi giorni fa l’ultima agghiacciante violazione dei diritti umani: viene trovato senza vita, e con evidenti segni di tortura, il giornalista Saleem Shahzad. La sua colpa, a quanto pare, è stata quella di aver denunciato i rapporti tra l’esercito pakistano e Al Quaeda.

Per capire meglio ciò che sta accadendo in questo Pakistan dimenticato dai media internazionali ho intervistato Riccardo Noury, 47 anni, portavoce e direttore dell’Ufficio Comunicazione della Sezione Italiana di Amnesty International.

Ettore Trozzi: Cosa sta succedendo in Pakistan?

Riccardo NouryIn Pakistan succedono almeno tre cose rilevanti. Da un lato ci sono zone del paese che sfuggono al controllo del governo centrale, si pensi in particolare ai territori tribali, quindi della frontiera nord-occidentale. Territori in cui la legge, se si può chiamare legge, è amministrata da forme di giustizia locale. Territori nei quali ci sono periodici attacchi da parte delle forze Nato, dall’Afghanistan, attacchi da parte di gruppi armati locali (i cosiddetti talebani pakistani) e anche offensive militari da parte delle forze di sicurezza del Pakistan. Questo è il primo aspetto.

Il secondo aspetto è che c’è, da parte dei servizi di intelligence chiamati ISI, una politica deliberata di sparare e disfarsi dei corpi che è chiamata ‘kill and dump’ che è molto forte nella regione del Balucistan, con centinaia di casi di omicidi sommari e compiuti, secondo molte fonti, dagli stessi servizi di intelligence pakistani. Quindi possiamo sintetizzare questo secondo profilo come una campagna di esecuzioni extragiudiziali, di cui fanno le spese anche i giornalisti, gli attivisti per i diritti umani, avvocati, leader di comunità locali.

La terza questione che non va assolutamente trascurata è il problema, che va avanti da molto tempo, ovvero la persecuzione ai danni delle minoranze religiose sia quelle scissioniste dell’islam sia la cristiana. Il tutto favorito da questa legge contro la blasfemia che è una legge arbitraria che viene applicata in forma punitiva nei confronti delle minoranze religiose.

ET: Quindi c’è una larga violazione dei diritti umani a monte?

RN: Sì, a prescindere chi sia l’autore è grave, gravissimo che coloro che difendono i diritti umani; coloro che fanno informazione, coloro che difendo in giudizio persone che hanno subito abusi poi diventino il target di questi omicidi. Questo già di per sé sarebbe grave, il fatto che poi molti di questi vengano attribuiti, e presubilmente a ragione, ai servizi di intelligence è un segnale che c’è una complicità attiva da parte di pezzi delle istituzioni nel commettere violazioni dei diritti umani. E c’è indubbiamente una complicità di tipo passivo che consiste nel non svolgere indagini, non procedere a incriminazioni, a processi e a condanne. Il tutto non fa altro che dare un segnale ulteriore di via libera a chi commette queste violazioni per commetterne altre.

ET: Si parla anche di indifferenza da parte delle forze di sicurezza: in alcuni casi persone sono state linciate dalla folla.

RN: Sì e questo, purtroppo, ha a che fare con l’assenza di un totale controllo da parte delle istituzioni sul territorio del Pakistan, cosa che favorisce forme brutali di giustizia locale, di giustizia tribale con sanzioni e pene decise in maniera del tutto arbitraria, al di fuori di qualsiasi procedura giudiziaria e che spesso si configurano come vere e proprie torture. Ad esempio linciaggi o condanne a morte eseguite in modo del tutto sommario o, peggio ancora, mutilazioni o come è stato segnalato più volte segnalato da Amnesty International in questi anni dei casi di sanzione in cui le donne vengono colpite e sottoposte ad attacchi fisici estremamente gravi e violenti.

ET: In base ai casi di violazione che avete segnalato negli anni scorsi le inchieste, se ci sono state, hanno portato a dei colpevoli o sono state insabbiate?

RN: La percentuale di inchieste e ancora di più di condanne rispetto al totale delle violazioni dei diritti umani è irrisoria. Possiamo dire che in Pakistan c’è un sistema di quasi totale impunità che è molto persuasivo. Ciò fa si che dai casi di singoli episodi, non meno gravi ma magari isolati, fino a queste campagne al ‘kill and dump’ non ci sia affatto giustizia.

ET: Secondo lei, dato che il Pakistan è uno Stato che gode della cooperazione internazionale, basti pensare agli ultimi avvenimenti di cronaca, cosa dovrebbero fare la comunità internazionale per far smobilitare la situazione in Pakistan?

RN: Il Pakistan è uno dei tanti esempi in cui la politica di cooperazione internazionale che sia sotto forma di aiuti economici, che sia sotto forma di partnership politiche o addirittura militari non è stata minimamente condizionata dall’aspetto dei diritti umani. Il Pakistan gode di una posizione geostrategica che lo rende un partner da un lato indispensabile, in tutta una serie di questioni, tra cui il futuro dell’Afghanistan, e dall’altro però questa posizione lo rende pericoloso perché un paese che si ritrova ad avere una tale importanza e che poi ha una sua irresponsabilità dal punto di vista del rispetto dei diritti umani pone dei problemi. Il futuro mi pare debba passare per un ripensamento degli accordi con il Pakistan e in generale con i paesi che violano i diritti umani. Noi diciamo che i diritti umani devono essere al primo posto pena la fine di qualunque tipo di alleanzaNon è possibile investire nell’insicurezza e nelle violazioni dei diritti umani. La storia ha dimostrato in altri parti del pianeta, penso alla Libia, che fare questo tipo di investimenti e di accordi e di cooperazione con paesi che violano i diritti umani è non soltanto pericoloso ma alla fine mostra tutti i limiti anche di durata dell’accordo in se.

[A questo momento ho trovato opportuno porre una domanda sulla Costa d'Avorio e sull'Egitto, situazioni in parte collegabili a quella pakistana]

ET: A proposito, in Costa d’Avorio ci sono stati circa due mesi fa i bombardamenti della comunità internazionale. Allora si diceva che sicuramente chi stava provocando morti e violazioni dei diritti umani erano i sostenitori di Gbagbo. Mentre adesso ho letto un vostro rapporto sia un rapporto di HRW, si parla anche dei sostenitori di Ouattara. Non è così delineata la situazione. In questi casi come bisognerebbe intervenire?

RN: La vicenda della Costa d’Avorio è emblematica proprio di come non bisognerebbe intervenire. C’era una situazione, che si è lasciata incancrenire per anni, di guerra civile prima che venissero convocate le elezioni spingendo i due principali candidati Gbagbo e Ouattara ad andare alle elezioni. La comunità internazionale ha puntato su un candidato, Ouattara, che dovrebbe aver vinto le elezioni, almeno questo è stato riconosciuto, e a quel punto le cose non sono state affatto risolte. E’ cominciata una nuova fase di questa guerra, in cui entrambe le parti hanno commesso crimini contro l’umanità e crimini di guerra e oggi ci ritroviamo a avere il cavallo su cui si è scommesso che è un cavallo che si è macchiato di questi gravi crimini. Questo, naturalmente, fa sì che Ouattara abbia una credibilità tutta da recuperare e che la comunità internazionale debba togliersi al più presto possibile dall’imbarazzo di aver puntato su un candidato con questo curriculum. Per farlo si devono aprire inchieste, se non sarà in grado di farlo la giustizia ivoriana dovrà farlo la giustizia internazionale. Andando fino in fondo: se c’è un capo di stato che, mentre è in carica, viene giudicato colpevole di crimini contro l’umanità non deve godere della minima immunità.

ET: Lei pensa che la situazione in Egitto possa andare migliorando?

RN: E’ inimmaginabile che ci possano essere più violazione dei diritti umani, è uno scenario a cui non voglio neanche pensare, rispetto al periodo dello stato d’emergenza e in particolare gli ultimi anni del regime di Mubarak. Però quello che stiamo dicendo in queste settimane è: per abbattere una dittatura la prima cosa che può succedere, e anche la più facile, è che cada il dittatore poi c’è il rischio molto pericoloso che rimangono tutte le prassi, le procedure, dai regolamenti alle abitudini e alla cultura che hanno fatto l’Egitto uno Stato in cui i diritti umani sono stati violati in maniera sistematica. Non tutto deve accadere subito però ci sono tanti segnali non buoni che fanno pensare che la strada sia ancora molto lunga. Sono settimane e mesi decisivi questi.

Articolo distribuito tramite licenza Creative Commons Attribuzione-NC-SA di Ettore Trozzi per iesperanto.eu . *Non puoi* condividere questo articolo senza integrare per intero questa nota. 

Crediti immagine: per gentile concessione di Amnesty International.

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