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Prof.ssa Dell’Aria: video discutibile, sospensione folle, ma il rischio legato alle politiche identitarie è reale

Il video che ha portato alla sospensione della prof.ssa Dell'Aria mi riporta indietro di 18 anni :) (vado per i 34).

Nel guardarlo, mi reimmergo nell’atmosfera della didattica della scuola superiore, molto più orientata all’analisi delle analogie che all’analisi delle differenze. Anzi, questa preferenza, nella scuola, viene coscientemente rimarcata, battendo il tasto sul fatto che gli intellettuali sono, citando la mia professoressa di Lettere, quelli con le antenne più sensibili, cioè coloro in grado di cogliere per primi le dinamiche sociali e le analogie, spesso sottili e sottotraccia, tra fenomeni storici. Quasi onnipresente, e sciorinata in varie forme, è la concezione dei corsi e ricorsi storici formalizzata da Giambattista Vico. Questo video è figlio dell’approccio didattico appena descritto e, che lo si condivida o no, faccio veramente fatica a ravvisare le motivazioni per la sospensione della docente che l’ha fatto esporre.

Di contro, eviterei di cadere nel tranello di rendere questa decisione figlia del clima politico degli ultimi due anni: molto più semplicemente, questa decisione è figlia di una dirigenza con poco spessore, che avrebbe agito in questo modo a prescindere dal periodo storico.

Invece, a prescindere da almeno un paio di accostamenti forzati che vedo nel video, farei emergere un altro aspetto, anch’esso molto presente nella didattica delle scuole superiori, di cui il video è pregno e sul quale vorrei riflettere: se richiamiamo alla mente i nostri studi di storia delle scuole superiori, ci accorgiamo che, tutte le volte che i popoli hanno preferito concentrarsi su questioni identitarie e hanno ritenuto più urgente cercare motivi di differenziazione con il prossimo, piuttosto che motivi di collaborazione, cooperazione o integrazione (eventualmente a scapito delle proprie peculiarità), l’escalation di eventi che ne è conseguita è stata nefasta. In generale, direi proprio che le questioni identitarie sono le più esplosive e le più pericolose possibili su cui un popolo può soffermarsi e su cui un governo può costruire una narrazione.

Sono pericolose ed esplosive sia se vengono poste beceramente con un approccio “loro contro noi”, sia se sono poste in maniera più ragionevole, ponendo l’accento, ad esempio, sulle grosse differenze in fatto di rispetto dei diritti individuali, e pretendendone l’accettazione in toto da parte di chi viene a vivere in Europa. Quest’ultimo approccio, per quanto ragionevole e da perseguire nella prassi, è comunque pericoloso se inserito in una comunicazione politica perché, alla lunga, si sedimenta con effetti analoghi al primo, generando razzismo becero al di là delle intenzioni ragionevoli.

Per questo motivo, le questioni identitarie vanno scacciate con forza in ogni caso dall’agone politico e, al limite, vanno ricondotte su un altro piano, quello della legalità e della certezza della pena. Del resto, buona parte dei nostri principi di rispetto dell’individuo è stata anche convertita in legge, per cui gli strumenti d’azione li abbiamo. Inoltre, spostare la questione sul piano legale, sia dal punto di vista comunicativo, sia dal punto di vista pratico, permette di raggiungere gli stessi obiettivi senza incappare in discriminazioni o, nel caso migliore, nella degenerazione del messaggio sopra descritta.
Il problema vero è che, su questo punto, chiaramente “casca l’asino”, perché il problema della certezza della pena riguarda tutti e, soprattutto, ci riguardava ben prima di essere interessati dal fenomeno migratorio. Spiegherò con un paradosso ciò che intendo.

Infatti, permettere allo Stato di monitorare con più efficacia gli aspetti comportamentali dei cittadini, sia nei confronti degli Europei, sia nei confronti di chi introduce elementi culturali differenti meno attenti all’individuo, vuol dire permettere allo Stato di entrarti “in casa” e nella vita personale, tramite le forze dell’ordine o gli assistenti sociali (soprattutto questi ultimi), e permettergli di monitorare:

  1. come gestiamo il rapporto con partner, figli e vicinato;
  2. se siamo inclini a grandi o piccoli reati. Non solo spaccio e prostituzione, ovviamente, ma anche piccoli favori, piccoli impicci, piccole ruberie e altri espedienti di sussistenza che causano un danno sistemico ed erariale.

E qui, ricasca l’asino: bisogna ammettere che provvedimenti del genere, nei confronti “loro”, appaiono quasi rassicuranti e forieri di un assoggettamento, anche forzato, alla nostra cultura, che ci porta a dire “ben venga”. Il problema è che, in realtà, questi provvedimenti andrebbero applicati anche a “noi”. A questo punto, ve li immaginate gli assistenti sociali che, “per ogni minima cavolata” (che è come la vedrebbe la maggior parte di noi), ci piombano in casa a farci le pulci? Vi immaginate la finanza che viene a farci un controllo per quella cifretta in nero versata all’agenzia immobiliare, al notaio, al medico, all’idraulico eccetera, allo scopo di risparmiare qualcosa? O la Polizia che comincia a farci domande su quella volta che abbiamo “regolato privatamente” , cioè con le “mazzate”, uno sgarbo, magari con l’aiuto di amici o parenti?

Del resto, a quel punto, non verrebbero controllati solo matrimoni combinati o sottomissioni delle donne all’uomo. A quel punto, verrebbe controllato tutto, anche i nostri comportamenti apparentemente disfunzionali.

Appare molto meno accettabile, adesso. Per di più, oltre a subire un’intrusione nel privato come minimo “fastidiosa” e, a dirla tutta, troppo vicina a quella di un regime totalitario, potremmo scoprire di essere noi per primi ben lontani da quella che definiamo “la nostra cultura”.

Ma, tanto, concorderete con me che quest’ultima eventualità sarebbe molto rara, poiché “noi” siamo ampiamente al riparo da storture comportamentali e culturali… ;)
Provocazioni a parte, la domanda da farsi è sempre quella: come mi sentirei se il presunto colpevole, magari senza esserlo, fossi proprio io? O, peggio ancora, se fossi anche veramente colpevole, ma sentissi di avere quelle solite giustificazioni spicciole autoassolutorie o di sussistenza?

Appare chiaro, quindi, come la comunicazione e l’azione politica si siano orientate su un approccio allo stesso tempo più becero e più deresponsabilizzante.

Dico deresponsabilizzante perché lo sforzo di integrazione ed assoggettamento, come mostrato, costringerebbe noi per primi ad essere cittadini migliori di quanto pensiamo. Invece, anche solo leggendo quanto scritto, appare evidente quanto pesanti e frequenti sarebbero le incursioni dello Stato nella nostra vita privata, allo scopo di allinearci veramente a quella che definiamo “la nostra cultura”. E, umanamente lo capisco, nessuno ha voglia di far questo, visto l’appena dimostrata tendenza ad essere, mi si perdoni il francesismo, “occidentali col culo degli altri”.

Dico becero perché, con gli accordi Gheddafi-Berlusconi, con gli accordi di Minniti e con la comunicazione e la “chiusura dei porti” salviniana, accettiamo supinamente l’atteggiamento dello struzzo. Visto che quella gente non vogliamo vederla in Italia, perché “tutta l’Africa in Italia non c’entra”, visto che non vogliamo neanche vederla morire in mare (anche se, purtroppo, ci sono più sadici di quanti pensiamo), allora abbiamo avallato l’idea di farla morire in Libia, ma senza vederla. A questo punto, il problema non è neanche più Berlusconi o Minniti o Salvini. Il problema siamo noi, il problema è la nostra coscienza collettiva che accetta, vigliaccamente, di preservare lo stato corrente e di nascondere a se stessa le conseguenze, facendo ammassare persone (il fatto che siano poverissimi o che siano la classe media, come fa emergere la Gabanelli, è completamente irrilevante) nei campi libici e “cavoli loro della fine che fanno”.

Già negli anni ’30 e ’40, decidemmo collettivamente, come Europei, di accettare le discriminazioni e i rastrellamenti degli ebrei, senza indagare o farci pesare più di tanto la fine che facevano, perché il fatto che tendessero ad operare come casta una chiusa li rendeva invisi a molti. Allo stesso modo, oggi, accettiamo nuovamente discriminazioni e segregazioni (al posto dei rastrellamenti) degli immigrati di origine africana e/o religione musulmana, perché introducono elementi comportamentali e culturali che, a ragione o a torto, possono risultare fastidiosi.

In quest’ottica, i paralleli tra gli avvenimenti riportati nei video risultano calzanti, non tanto per quanto riguarda il testo delle leggi o il contesto dei singoli provvedimenti, ma per la temperie culturale di insofferenza che porta a ignorare, minimizzare, e a volte, augurare (non sto esagerando), sofferenze e atrocità.
E’ giusto che ci diano fastidio:

  • i matrimoni combinati della cultura indiana;
  • la compravendita delle spose di alcuni popoli nordafricani;
  • sentire uomini che ritengono che la donna non debba né lavorare né guidare, che debba solo obbedire e che, a malapena, debba uscire a far la spesa;
  • le pratiche atroci della mafia nigeriana, un misto di delinquenza e religione tribale, che fanno sembrare angioletti gli ‘ndranghetisti;
  • lassismo e vizio di camminare a bordo strada, anche di notte, senza pettorine di molti ragazzi dell’Africa equatoriale.

Abbiamo già gli strumenti per contrastare, con sanzioni amministrative o pene, tutti questi comportamenti disfunzionali. Stando attenti ad assicurare la certezza della pena, tutti quei comportamenti, anche di origine culturale, che vanno contro la nostra cultura o il nostro senso comune, verrebbero eradicati nell’arco di due generazioni, senza la necessità di campagne comunicative discriminanti, con l’ulteriore vantaggio di ripianare anche le storture comportamentali degli autoctoni.
Invece, al momento, abbiamo fatto un doppio errore:

  1. Siamo stati lassisti, creando delle sacche di illegalità in cui hanno sguazzato sia gli europei in difficoltà, sia i migranti che non sono riusciti ad integrarsi nel tessuto lavorativo (eventualità che, provenendo da una situazione già di difficoltà come quella di una migrazione, diventa di maggiore probabilità). Con questo lassismo, abbiamo lasciato le periferie in balia della delinquenza più o meno spicciola che, per il motivo detto in precedenza, è sempre più costituita da persone non europee. Attenzione, non dobbiamo essere ottusi al contrario: non sto dicendo che molti immigrati sono delinquenti, perché questo è falso; sto dicendo che molti delinquenti sono immigrati, e che la loro quota è in crescita. Questo è innegabile.
  2. Anziché efficientare la rete di controllo su tutta la popolazione, affiancando il tutto con una campagna equilibrata, ora stiamo anche inseguendo il malcontento delle periferie, con campagne di comunicazione che puntano il dito specificatamente contro una fascia di popolazione. Così facendo, il clima di intolleranza sta salendo in maniera vertiginosa, soprattutto nelle periferie dove era già alto, creando barriere a priori tra noi e “loro”, a prescindere dalla buona volontà di questi ultimi e a prescindere dalla presenza, in “loro”, di eventuali comportamenti che avremmo definito fastidiosi. Stiamo creando un clima che ha due effetti nefasti:
    1. induce gli Europei a non curarsi delle condizioni disumane di chi staziona in Libia, aumentando il favore con cui vengono accolte politiche di controllo della migrazione (tra l’altro, l’Italia è l’unico Paese dove almeno ci poniamo il dubbio se accogliere o meno, negli altri Stati esistono solo vie formali per l’ingresso. Sembra paradossale, ma l’Italia è ancora un avamposto di civiltà);
    2. peggio ancora, rende la vita ulteriormente più difficile agli stranieri già presenti in Europa, creando negli immigrati di prima e seconda generazione un substrato di rivalsa e di odio. Questi ultimi, quindi, anziché tendere ai nostri comportamenti e rimuovere dalla propria quotidianità gli atteggiamenti meno compatibili con la nostra cultura, reagiscono anche loro in maniera identitaria e cominciano ad esibire le proprie peculiarità come un vessillo, entrando anche loro nella pericolosa dinamica di contrapposizione identitaria.
Questo articolo è stato pubblicato qui

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