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Iran e Usa: come andrà a finire?

La minaccia della chiusura dello stretto di Hormuz, oltre ad essere una risposta alla promessa di sanzioni, può anche essere legata a ragioni di speculazione sul prezzo del greggio da parte dello Stato iraniano, con lo scopo di ottenere il pareggio di bilancio. Il rischio di conflitto, in realtà, sembra più remoto di quanto si creda: grazie alla geografia del Golfo Persico, infatti, gli Stati Uniti, nelle simulazioni di guerra, risultano perdenti con ampio margine. La soluzione più percorribile, quindi, sembra quella di rendere meno cruciale lo stretto di Hormuz, costruendo appositi oleodotti più a nord (si parla di riesumare il progetto della Trans-Arabian Pipeline). Qui, entrano in gioco Libano e Siria, elementi del piano statunitense per l'approvigionamento di idrocarburi: in particolare, entra in gioco l'invasione del Libano da parte di Israele, nonché una possibile operazione in Siria. Infine, si analizza la possibilità che gli USA utilizzino la guerra come strumento di ripresa dell'economia, tramite gli introiti dell'industria bellica. In questa ottica, si esplorano un'ipotesi a lungo termine, basata sul concetto degli stati pivot di Brzezinsky, ed un'ipotesi a breve termine di azione limitata al solo Iran.

L'Iran ha calato l'asso. Dopo l'ennesimo annuncio di sanzioni internazionali, minacciate con il pretesto, non per forza veritiero, del programma di sviluppo nucleare, lo Stato degli Ayatollah ha risposto con la minaccia della chiusura dello stretto di Hormuz.

E' una dichiarazione abbastanza difficile da contestualizzare. Si fa presto, infatti, a parlare di venti di guerra. In realtà, come vedremo, le forze in gioco sono talmente grandi che una guerra avrebbe costi altissimi ed imprevedibili, nonché una probabilità non trascurabile di esiti catastrofici.

Cominciamo con l'analizzare l'economia dell'Iran. come si può immaginare, il prezzo del petrolio è fondamentale per i bilanci dello Stato degli Ayatollah. In particolare, si è visto sperimentalmente che il prezzo del petrolio sopra il quale l'Iran raggiunge tranquillamente il pareggio di bilancio è quello di 90 dollari al barile. Ogni intervento sulla produzione di greggio, oppure sul suo transito, modifica l'offerta di petrolio, a fronte di una domanda stabile: ergo, fa salire il prezzo. In realtà, per far salire il prezzo, spesso bastano solo gli annunci. L'analisi più ottimistica, quindi, afferma che l'Iran stia giocando sul prezzo del greggio per lucrarci sopra.
Fonte: http://geopoliticamente.wordpress.com/2011/12/30/nella-partita-di-hormuz-liran-cerca-il-profitto-non-la-guerra/

Assumiamo un'ottica più pessimistica, in cui quello enunciato sopra è soltanto un aspetto collaterale. Rifocalizziamoci sulla risposta alla minaccia di sanzioni, e supponiamo che l'Iran decida, in qualche modo, di chiudere lo stretto. Come reagirebbe la comunità internazionale? 

Bene, gli Stati Uniti si sono già posti il problema e, dalle simulazioni di guerra, si sono accorti che potrebbero fare ben poco. La geografia del Golfo Persico, infatti, gioca tutta a favore dell'Iran: le navi statunitensi inviate per forzare il blocco verrebbero sconfitte facilmente e in poco tempo. E non solo è molto facile difendere il golfo dall'ingresso di navi straniere, ma è altrettanto facile inviare missili su eventuali oleodotti costruiti allo scopo di bypassare lo stretto. La soluzione più rapida, ad esempio, sarebbe un oleodotto che, dal porto di Abu Dhabi, trasporti il petrolio verso Fujairah, approdo al di là dello stretto. Questo oleodotto, però, sarebbe facilmente alla portata dei missili iraniani e, in una situazione di conflitto, potrebbe essere bombardato senza troppi complimenti. Fonte: http://www.stampalibera.com/?p=39021

Il conflitto, quindi, non sembra una strada percorribile, almeno in prima istanza. Riconsideriamo, però, il problema degli oleodotti. C'è un problema che, comunque, sussiste: il 40% del petrolio mondiale passa per uno stretto controllato da uno stato nemico degli USA. In termini ingegneristici, è quasi un single point of failure. Il primo passo, quindi, deve essere quello di rendere meno cruciale quello stretto. Una delle ipotesi maggiormente considerate passa un po' più a nord: si chiama Trans-Arabian Pipeline (TAP), un progetto di oleodotto temporaneamente messo da parte, che avrebbe dovuto trasportare il greggio dai porti sauditi lungo il Golfo Persico fino alle coste libanesi. Vista la situazione attuale, questo progetto sta riprendendo quota. 

In quest'ottica, inoltre, va rivisitata l'invasione del Libano da parte di Israele, avvenuta qualche anno fa. Libano e Siria sono le tappe di un percorso costituito da sette fasi: Iraq, Somalia, Sudan, Libia, Libano, Siria, Iran (la ricerca su Google è illuminante, a tal proposito). Sono le tappe di un piano, neanche tanto celato, volto all'ottenimento della supremazia per quanto riguarda l'approvigionamento di petrolio e gas naturale. La Siria, secondo i piani originali, avrebbe dovuto subire l'onda lunga dell'operazione in Libano ma, grazie alle scelte inadeguate dei generali israeliani, che sono riusciti ad impantanarsi nonostante affrontassero un nemico molto più debole, ha potuto salvarsi e non ha perso la sua sovranità. In ogni caso, il fatto che la Siria sia nuovamente al centro dell'attenzione è testimoniato dal grande risalto dato dai media alle repressioni operate da Assad. In tempo di primavera araba, una delle chiavi per la sopravvivenza per un dittatore è, passatemi l'understatement, evitare che le potenze occidentali decidano di aiutare i ribelli.
(Fonte: Stampa Libera). Insomma, la soluzione più probabile, almeno in quest'ottica, è che gli Stati Uniti evitino il conflitto con l'Iran e decidano di aggirare il problema con gli oleodotti.

Nel frattempo, analizziamo l'atteggiamento di Israele. Ebbene, come al solito, gli Israeliani hanno parecchi pruriti sulle mani. In base a quanto affermato dalle autorità iraniane e, molto più significativamente, da Foreign Policy e da Time Magazine, sono loro i responsabili della serie di omicidi degli scienziati iraniani impegnati nel programma di sviluppo nucleare. (Fonte: Mazzetta). 

Come se non bastasse, sono insoddisfatti del modo in cui gli USA portano avanti la politica delle sanzioni, perché la ritengono inefficace nel bloccare il programma nucleare iraniano. Gli stessi Stati Uniti sono preoccupati del fatto che Israele possa intraprendere autonomamente un'azione militare contro l'Iran, tanto che Leon Panetta in persona s'è dovuto scomodare e ha mandato un messaggio privato (di cui è stato pubblicato uno stralcio) ai leader israeliani, in cui ricorda loro le conseguenze spaventose di un conflitto. Fonte: Usa Watch Dog 

Infine, c'è un aspetto ulteriore da analizzare, perché introduce un'altra fonte di incertezza nelle previsioni: la recessione economica. Non è un mistero che, dopo la crisi del '29, gli Stati Uniti abbiano vissuto una vera ripresa solo con l'intervento nella Seconda Guerra Mondiale. Non sono pochi gli analisti, più o meno naif, che, con l'approccio dei corsi e ricorsi storici, ritengono che gli Stati Uniti stiano giocando l'all-in, preparando una guerra. Coloro che sposano questa tesi, quindi, sono in attesa dell'attentato false flag che gli USA utilizzeranno come pretesto per l'intervento. Questa ipotesi, in effetti, non è completamente confutabile, visto il modo in cui è iniziata la guerra in Afghanistan. Di contro, l'amministrazione Obama è molto più cauta nel gestire gli effetti mediatici delle proprie azioni. In ogni caso, senza soffermarsi su questioni sulle quali non si hanno elementi di ragionamento, conviene proseguire la riflessione con atteggiamento possibilista. In sostanza, il ragionamento da seguire varia in base a quale modello interpretativo si ritiene più aderente alla realtà:

  1. La teoria degli stati pivot di Brzezinsky. Le avversarie a lungo termine sono Russia e Cina, potenze regionali emergenti. Intervenire in Iran serve a consolidare la posizione di vantaggio degli USA nell'approvigionamento di combustibili fossili, in modo da ridurre le potenzialità di sviluppo economico delle avversarie. In questo caso, è ragionevole aspettarsi che gli USA evitino uno scontro frontale con le potenze avversarie, perché potrebbe avere costi altissimi e conseguenze imprevedibili. Nel dirlo, confido anche nel fatto che le due Guerre Mondiali siano un trauma ancora ben radicato nella nostra cultura, nonché nelle classi dirigenti statunitense e anche russa: se quest'ipotesi è vera, è naturale aspettarsi che nessuna delle due cerchi lo scontro diretto e che, quindi, non si vada oltre ciò che si è visto durante la Guerra Fredda. In soldoni, questo equivale a dire che gli USA eviteranno ad ogni costo l'intervento militare diretto, optando, più probabilmente, per la soluzione "baby step" dell'oleodotto alternativo.
  2. Guerra usata opportunisticamente come strumento di uscita dalla crisi. In quest'ottica, gli Stati Uniti si impegneranno in una guerra con l'Iran per sostenere la propria industria bellica e rilanciare l'economia, ma senza l'obiettivo di asfissiare Russia e Cina, regolando e restringendo il loro approvigionamento di combustibili fossili. In quest'ottica, gli USA negozieranno in qualche modo la non belligeranza di Russia e Cina. Attualmente, la Russia ha definito l'attacco all'Iran "una minaccia diretta alla propria sicurezza". Di contro, il fatto che Israele elimini selettivamente gli scienziati iraniani, senza che Russia e Cina si inalberino più di tanto, è un punto a favore di questa seconda ipotesi. In quest'ottica, i russi e i cinesi utilizzeranno la loro potenziale forza militare (anche nel comparto nucleare) per mettersi di traverso agli USA, e lasciar loro campo libero in Iran solo in cambio di accordi commerciali e/o economici vantaggiosi.

In conclusione, con le informazioni attualmente disponibili, non è possibile emettere una sola previsione. La chiave di volta di tutto, molto probabilmente, saranno le vicende siriane. L'atteggiamento degli USA nei confronti del Paese di Assad farà propendere definitivamente l'ago della bilancia verso una delle ipotesi fornite.

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