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Privatizzate e moltiplicatevi

Come segnalato dall’agenzia di stampa politica e parlamentare Public Policy, ieri in Commissione Bilancio della Camera siè iniziata a discutere la risoluzione sui criteri di individuazione dei beni pubblici privatizzabili e sulla destinazione dei proventi di tali dismissioni, il cui primo firmatario è il deputato pentastellato Tommaso Currò. Che dire? Al netto della buona volontà, sono ideuzze potenzialmente pericolose.

Dopo la doverosa premessa che solo la crescita consente di ridurre il debito, la risoluzione, nelle parole di Currò, chiede di:

«Rimuovere il vincolo attuale che obbliga il governo a destinare i proventi delle dismissioni alla riduzione del debito valutando così l’alternativa di destinare tali risorse agli investimenti»

Questa tipologia di “suggerimento” non è inedita, considerando che tre settimane addietro alla Camera era stata presentata una mozione a firma di una ventina di deputati Pd tra cui Fassina, Cuperlo, D’Attorre ed altri appartenenti all’area bersaniana, in cui si chiedeva al governo, “prima di procedere a ulteriori iniziative di alienazione di quote di società di proprietà dello Stato” di “presentare al Parlamento una relazione” con gli effetti industriali della privatizzazione e quelli sul bilancio dello Stato. Ma, soprattutto, chiedeva che gli introiti venissero “reinvestiti” e non portati a diminuzione del debito.

Nella sostanza, in queste mozioni e risoluzioni figurano due elementi: la richiesta di una sorta di “valutazione d’impatto” della dismissione sui conti pubblici, e la richiesta di deroga al vincolo di destinazione dei proventi da essa derivanti, che oggi devono andare a riduzione dello stock di debito. Pertanto Currò e la sua risoluzione arrivano buoni ultimi. Se la richiesta di valutare l’impatto delle dismissioni sul bilancio dello stato (in termini di confronto tra redditività dell’attivo dismesso e costo cessante del debito pubblico ritirato tramite essi) e sulle dinamiche competitive dei settori interessati hanno senso e razionalità, il cambio di destinazione dei proventi è perlomeno sospetto.

In queste richieste si nota la particolare attitudine del nostro politico medio a dare definizioni del concetto di investimento talmente ampie da spingersi sino a ricomprendere in esse la spesa corrente. Ad esempio, secondo Currò, i proventi delle dismissioni potrebbero essere utilizzati

«(…) per il rilancio economico della nostra economia, che necessita nell’immediato di interventi statali di supporto del settore economico e produttivo, e di interventi per sostenere la domanda di beni e servizi, da realizzare mediante un processo di attribuzione di maggior potere di acquisto di salari e stipendi»

Se qualcuno tra voi, in questa definizione di intervento pubblico, ritiene di ravvisare la fattispecie dell’investimento, ci scriva e ne discuteremo laicamente. A noi pare che questi siano interventi di spesa corrente, ma potremmo sbagliarci. Ma soprattutto, l’astutissimo Currò ha scoperto che le risorse destinate a riduzione del debito andrebbero a beneficiare lo Straniero, perché “il debito è in parte straniero e quindi i soldi superano il confine nazionale senza che nessuno se ne accorga”, e di conseguenza ha già apprestato le contromisure. Ricorrendo a questi astutissimi “investimenti strategici”,

«(…) gli investimenti rimangono sul territorio e producono effetto di aumento della base monetaria e moltiplicatore di Keynes»

A beneficio di Currò e della sua indubbia expertise economica, è utile sapere che la “base monetaria” è creata non dagli investimenti pubblici ma dalla banca centrale, ogni volta che quest’ultima acquista attività pagandole con moneta a corso legale di sua emissione (cioè con proprie passività), e viceversa viene distrutta quando la banca centrale vende attività che ha in portafoglio, ricevendo in pagamento moneta a corso legale. Forse il buon Currò intendeva, in luogo di “base monetaria”, il concetto un po’ più ruspante di “soldi che girano”, nel qual caso sarebbe utile padroneggiare concetti e terminologia, prima di giocare al piccolo legislatore.

Quanto al non meno celebre “moltiplicatore di Keynes” (sic), è utile segnalare a Currò che, ogni volta che si stimola la domanda, in tutte le sue componenti, esiste sempre un’altra cosina, chiamata “moltiplicatore del commercio estero”, che determina che parte della spesa (sia per consumi che per investimenti) finisca all’estero, in mano all’odiato (da Currò) Straniero. Quindi, a meno di sostituire tutte le produzioni importate con altrettante domestiche, magari con l’ausilio di una stampante 3D, l’ideuzza di Currò torna al via. Anzi no, non torna al via, perché dismette attivi patrimoniali pubblici per finanziare con altissima probabilità spesa corrente, visto che non basta chiamare una cosa con un nome per assegnare a quella cosa la funzione sottostante alla denominazione. Come avrebbe detto Magrittececi n’est pas un investissement. E qui avete un esempio plastico di cosa riuscirebbero a fare gli italiani, potendo disporre dello scorporo degli “investimenti” dal rapporto deficit-Pil.

Come direbbe il nostro premier, we know our chickens. O forse erano polls?

Questo articolo è stato pubblicato qui

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