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Presadiretta: mal di plastica

La plastica dura in eterno, dovremmo usarla con maggiore consapevolezza: lo si scopre andando a pulire le spiagge dove si trovano, come racconta nell’anteprima il servizio di Presadiretta, anche i tappi con la scritta Moplen.

La plastica è eterna e dura anche pochi attimi, quella usa e getta: non solo inquina anche prima di entrare in commercio, come succede a Brindisi al Petrolchimico. Sulle spiagge davanti la struttura industriale Greenpeace ha rilevato una elevata concentrazione di granuli di plastica.
Da questi granuli si ricavano gli oggetti a noi familiari: tutte le persone cresciute su questa spiaggia si ricordano di questi granuli colorati con cui, da bambini, si giocava anche.
I granuli si sono presi la spiaggia, si ritrovano nel mare: finché non si bonificherà l’area davanti il polo di Brindisi non se ne uscirà, si continuerà ad inquinare l’acqua e l’aria. Sono granuli che si trovano nelle pance dei pesci, per arrivare dentro l’uomo.
La domanda di plastica continua a crescere nel mondo e questo causa il maggiore inquinamento di granuli nell’ambiente, fuoriusciti dalle industrie o dai container che trasportano la plastica, a causa di incidenti e degli sversamenti in mare.
Eni-Versalis nega che quei granuli dipendano dalla loro produzione: dal 1991 l’azienda sta provando ad arginare la dispersione dei granuli, senza successo.

Lo studio epidemiologico nella zona del Brindisimo mostra un aumento del rischio delle malattie gravi, tumori maligni, del pancreas, eventi coronarici acuti, malattie respiratorie: sono stati rilevati anche aumenti dei ricoveri nei bambini sotto l’anno.
L’impianto Eni Versalis è stato bloccato nel 2020, dopo la fuoriuscita di sostanze nell’aria dannose per la salute dell’uomo: c’è l’inquinamento per la plastica e anche quello per la sua produzione.
Si è arrivato al 2022 prima di avere delle centraline che monitorassero l’aria attorno agli impianti, con un ritardo di vent’anni.

Il 98% della plastica al mondo si produce dal petrolio e dal gas: i primo venti produttori di plastica al mondo sono anche aziende nel settore petrolifero come Exxon e Totale.
La plastica monouso contribuisce ai cambiamenti climatici spiega Dominique Charles a Presadiretta: conviene produrre plastica vergine piuttosto che riciclarla, il rapporto è 20 a 1 tra plastica nuova e riciclata. Di questo passo, continuando a produrre troppa plastica, riempiremo il mondo: solo il 9% di plastica si ricicla, il resto finisce nei mari oppure abbandonato nei campi. Ma finisce anche nel profondo del nostro corpo.

La plastica nel sangue
Amsterdam, dipartimento di immunologia dell’università: qui i ricercatori hanno ipotizzato che l’esposizione alla plastica portasse ad una contaminazione nel sangue. La ricerca ha dimostrato questa tesi: la plastica è anche dentro di noi, ci scorre nelle vene sotto forma di microplastice (sotto i 5 mm fino ai micron).
Sono microplastiche provenienti da materiali che usiamo tutti i giorni: il polimero più trovato è quello delle bottiglie di plastica, poi il polistirolo, infine la plastica dei giocattoli e dei cosmetici.
Quali gli effetti di queste microplastiche? Porteranno a nuove malattie? Ancora non lo si sa, raccontano ad Asmterdam, ma stanno facendo altre ricerche in tal senso.

Studiano come reagiscono i globuli bianchi alla presenza di microplastiche: le cellule che fanno da spazzini si mangiano anche queste microplastiche, come i virus o le cellule morte, ma ancora non si sa se poi le “cellule spazzine” muoiono.
Le microplastiche si trovano anche nell’urina, nelle feci e nella parte più profonda dei polmoni.

Paolo Tremolada è un professore dell’Università degli Studi di Milano che ha studiato come la plastica è entrata nel nostro corpo: la plastica può sprigionarsi quando si scalda un contenitore di plastica, dalle gomme delle macchine, dal rubinetto dell’acqua, che scorre nei tubi, dall’aria negli uffici (dove c’è meno ricambio d’aria).
Negli ambienti chiusi respiriamo plastica tramite fibre sottilissime che arrivano dai nostri vestiti: la sorgente più comune è quello dei materiali sintetici che indossiamo, come il pile. A lungo termine non è detto che sia così innocuo – ammette il professor Tremolada.
 

All’università di Milano hanno fatto un esperimento, hanno estratto dal filtro di una asciugatrice circa mezzo grammo di microfibre su un kg di capi sintetici messi nel cestello: la piccola matassa è stata poi consegnata al laboratorio di medicina rigenerativa del policlinico di Milano per capire che effetto possa avere sui polmoni respirare queste sottilissime fibre sintetiche.
Lo spiega la dottoressa Lorena Lazzari: nel laboratorio hanno elaborato un modello sofisticato che, partendo da una biopsia che con opportuni a queste cellule staminali presenti in essa, riusciamo ad ottenere quello che è un piccolo organo, vengono infatti chiamati organoidi, che è tridimensionale con tutte le cellule che il polmone umano presenta.

“Una volta ottenuto questo piccolo modello di polmone umano abbiamo unito le microplastiche ottenute dal professor Tremolada al nostro organoide” racconta la dottoressa a Presadiretta “scoprendo che all’inizio avevano inglobato la plastica e alla fine abbiamo valutato se funzionalmente producevano dei fattori nocivi, abbiamo visto questo fattore che è peculiare dell’infiammazione.”
Tradotto in termini più semplici significa che le cellule dell’organoide, che è un modello vivente dei nostri polmoni, ha sofferto all’impatto con queste microplastiche.

La plastica inquina i fiumi, i mari e anche la terra. Così, mangiata dagli animali, assorbita dalle piante, entra nel nostro organismo.

I ricercatori di Catania hanno elaborato un sistema innovativo per analizzare porzioni minuscole del cibo, analizzando frutta e verdura presa dal biologico e dal supermercato. Hanno trovato microplastiche ovunque, senza distinzione tra bio e meno.
Racconta alla giornalista di Presadiretta una dottoressa dell’università di Catania, “fino a poco tempo fa non immaginavamo che venissero assorbite da questi organismi vegetali, perché la parte che viene assorbita è di difficile osservazione”. Sono le particelle più piccole, quelle di pochi millesimi di mm quelle più spesso trovare nel cibo e anche le più insidiose per la salute, perché capaci di entrare in circolo nel sangue.
Assieme all’università di Messina hanno fatto uno studio su un pesciolino, messo a contatto con le microplastiche: “abbiamo esposto un pesciolino molto piccolo in un acqua ricca di particelle di polietilene blu, le microplastiche, che sono di 10 micron, quindi moto piccole, e sono state assorbite dai tessuti circostanti. ”
Una parte delle larve del pesciolino morivano, non si cibavano più, “ci siamo resi conto che diventavano cechi, non si orientavano più nell’ambiente circostante, non riuscivano a nutrirsi e quindi morivano di stenti e di fame.”
Quando noi assorbiamo delle microplastiche, parte viene eliminata con le feci, ma una parte viene assorbita nei nostri tessuti: se ne sono accorti anche a Catania, con l’analisi del sangue: “in un 1 ml di sangue abbiamo trovato centinaia di particelle dai 3 micron in giù, nonostante io cerchi di eliminare la plastica dalla mia tavola, dalla cosmesi, ma è veramente complicato, perché poi in realtà gli alimenti poi la contengono, quindi noi per via alimentare siamo esposti ma anche per via inalatoria”.

Esiste una correlazione tra microplastiche nel sangue e il tumore nel colon retto? Sappiamo che le microplastiche bene non fanno al nostro organismo: l’analisi della risposta delle cellule staminali sottoposte alle microplastiche ha rilevato effetti di infiammazione, ma gli effetti generali devono ancora essere studiati.
Le cellule di plastica che respiriamo arrivano nel cervello, potrebbero causare malattie degenerative, potrebbero causare malattie come il diabete: dovremmo ridurre al massimo l’utilizzo della plastica, chiedendo sempre meno plastica, perché è il mercato che orienta l’industria.

Ma anziché ridurre la plastica, spediamo tonnellate di plastica in giro nel mondo, pensando che sia riciclata.
Lo ha scoperto Presadiretta in Turchia, ad Adana: in mezzo ai palazzi in costruzione c’è una discarica illegale di rifiuti di plastica, proveniente dall’Italia.
Sono balle di plastica che provengono dalle aziende di riciclo nella zona: plastica europea che i cittadini hanno differenziato e che i paesi hanno venduto alla Turchia perché venisse riciclata, come consente la normativa europea.
Ma alla fine la Turchia non ha riciclato nulla e la plastica è finita nei terreni attorno ai grattacieli di questa città poi colpita dal terremoto.
L’esportazione verso la Turchia è cresciuta del 500% dopo che la Cina ha smesso di prendersi la nostra plastica: le aziende del riciclo devono lavare la plastica quando viene triturata e così si inquinano anche le acque dei fiumi, che in Turchia sono molto inquinati.


Quello che succede in Turchia è che la plastica viene bruciata oppure gettata nel terreno, perché riciclarla veramente costa troppo.
Così nell’ambiente si rilasciano metalli pesanti, in zone dove sono presenti campi coltivati, dove gli animali vengono allevati all’aperto.
“Non ci sono confini, se si inquina una parte del mondo, si inquina tutto il mondo” racconta a Teresa Paolo un ricercatore dell’università di Adana a proposito della plastica europea (e italiana) che finisce qui. Ma arrivano in questi campi anche rifiuti illegali, come pezzi Tetrapak: che conseguenze ci sono per gli abitanti in questo distretto del riciclo?

Le discariche a cielo aperto hanno inquinato i terreni con diossina e furano, raccontano da Greenpeace Turchia: il governo turco sta ora cercando di mettere un freno a questi comportamenti, ma ci sono le pressioni delle aziende del riciclo.
L’Europa non si interessa se queste aziende in Turchia fanno veramente riciclo, pur sapendo che il servizio offerto ha un costo inferiore rispetto ad altri paesi.
Pur sapendo che a lavorare in queste aziende del riciclo ci sono rifugiati siriani e perfino bambini che raccolgono la plastica in strada o che lavorano nelle fabbriche del riciclo.

Sono fabbriche dove ancora si divide la plastica europea a mano, senza nessuna tecnologia sofistica: l’odore che sale da queste fabbriche impesta le case costruite vicino. La plastica viene bruciata di notte, quando la gente dorme, ma le persone se ne accorgono lo stesso, per l’odore.
E i controlli del governo turco? “Noi non ce ne siamo accorti” racconta a Presadiretta una signora che vive attorno a queste aziende del finto riciclo.
Il Parlamento Europa nel gennaio 23 ha votato una norma per vietare l’esportazione della plastica fuori dall’Unione Europea: vedremo cosa succederà dopo la negoziazione, se prevarranno gli interessi ambientali e della salute o altri interessi. E vedremo se si riuscirà a combattere le esportazioni illegali di rifiuti, come quelle che vengono scoperte al porto di Brindisi.

Altro che economia circolare, i consorzi e le aziende dovrebbero verificare gli impianti a cui mandano i loro rifiuti.
Ma in realtà l’Europa ha la coscienza sporca, manda i rifiuti in Turchia a basso prezzo senza vedere come viene riciclata.

Ma quanta plastica può essere riciclata?
Ogni volta che compriamo qualcosa, compriamo anche della plastica, che va differenziata e che arriva negli impianti di recupero come quello di Caivano.
Cosa succede in questi impianti? La verità sul riciclo è amara: non tutta la plastica può essere riciclata, le macchine dell’impianto e i lettori ottici non riescono a gestire tutte le tipologie di plastica, divise per colore e polimero.
C’è molta plastica che non può essere riciclata, come quella nera, come il polistirolo, le reti (come quelle per le patate): questi imballaggi vengono così bruciati.

Il 50% della plastica differenziata viene bruciata: tocca a noi consumatori scegliere i prodotti che hanno un minor impatto sull’ambiente. Per esempio Plastica vuol dire non riciclabile, anche se è presente il simbolo del riciclo. Lo stesso vale per le vaschette degli affettati, le buste della mozzarella …
Il codice di identificazione della plastica è stato inventato in America, ma molte aziende lo usano come prodotto di marketing: l’azienda della plastica non ha fatto abbastanza per il riciclo ed è stata inerte per troppi anni, colpevolmente inerte.
La plastica non è riciclabile, dobbiamo esserne consapevoli: le aziende petrolchimiche in America nel 1991 avevano promesso al Congresso di costruire 15 nuovi impianti di riciclo, ma alla fine ne è rimasto solo uno, perché riciclare veramente ha un costo non sostenibile.

IL professor La Mantia ha studiato la plastica per anni: i polimeri differenziati hanno caratteristiche meccaniche diverse dalla plastica vergine, la plastica mista non ha speranze dunque di utilizzo nel mondo, da una bottiglia di PET si può al massimo creare delle fibre con cui fare il pile.
Non si devono costruire prodotti con più polimeri assieme perché impossibile da riciclare spiega il professore.
Per esempio il brik di Estathè della Ferrero: l’azienda ha firmato un accordo per impegnarsi a produrre altri brik, ma nei prossimi anni.

In Francia la multinazionale Danone è stata accusata da diverse associazioni di consumatori di non fare abbastanza per il riciclo: le minacce di azioni legali però non sempre bastano, servirebbero leggi severe a livello nazionale ed europeo.
Ma le leggi sul riuso hanno sollevato critiche dai paesi europei, come in Italia da parte di Confindustria che si è opposta alla normativa europea: riuso e riciclo però non sono in contrapposizione, possono funzionare assieme.
Dal 2030 sul mercato ci deve essere solo plastica riciclabile o compostabile, l’altra plastica non deve esserci più, almeno questa è la promessa.

Che fine ha fatto la bioplastica?
Poco più del 50 % delle bioplastiche sono biodegradabili, questa è la prima notizia. Le bioplastiche derivano da fonti vegetali, ma non possono essere gettati come rifiuti organici: le bottiglie di bioplastica rimangono tali come quelle di plastica, anzi possono essere anche peggio per l’ambiente.

A Padova hanno fatto degli studi sulla biodegradabilità del PLA: la sua biodegradabilità si ferma però al 40%.

Ci sono impianti, come a Montello, dove la bioplastica diventa compost, attraverso degli enormi “digeritori”: servirebbe una raccolta a parte delle bioplastiche, ma c’è uno scontro tra chi gestisce gli impianti e il consorzio Biorepak.

Meno plastica per tutti

Nonostante le proteste delle nostre industrie, ridurre e riusare la plastica (specie quella usa e getta) si deve e si può fare, come han mostrato i servizi dalla Francia e dalla Norvegia.
In Norvegia la plastica viene messa da parte e portata nei supermercati: è la plastica su cauzione, 20 o 30 centesimi di euro che vengono consegnate alla cassa.
Il sistema di deposito cauzionale funziona in Norvegia: non si vedono bottiglie di plastica in giro perché tutti sanno che queste hanno un valore.
Qualsiasi chiosco, qualsiasi supermercato è obbligato a pagare una cauzione, a prescindere da dove sia stata acquistata la bottiglia, perché il sistema è centralizzata.

A gestire i resi c’è un ente non profit che dalle bottiglie ricava le balle di PET e di alluminio: ogni bottiglietta può essere riciclata, in un ciclo virtuoso, solo l’1% dei contenitori rimane fuori da questo sistema, che coinvolge tutti, dall’industria ai consumatori.
E in Italia? Enzo Favoino racconta di come in Italia si disperdano miliardi di bottigliette ogni anno, con un costo a carico dei comuni, le aziende del settore raccontano che non convenga il deposito cauzionale, ma in realtà senza deposito non si arriverà mai al 90% di plastica riciclata o riusata come chiede l’Europa.

Possiamo riusare le bottiglie con le borracce e lo stesso possiamo fare con i flaconi dei detersivi, con lo shampoo, riempiendo barattoli all’infinito: anche i nostri comportamenti singoli possono fare la differenza.
In Francia hanno bandito le plastiche monouso, anche nei bar, con una legge ancora più ambiziosa della direttiva europea: niente imballaggi per frutta e verdura nel supermercato, niente bottigliette nei bar. È aberrante imballare dentro la plastica la banana o la verdura – racconta la ministra per la transizione energetica in Francia (si, anche da loro esiste un ministero del genere, ma diversamente da noi lavora per l’ambiente).

Questo articolo è stato pubblicato qui

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