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Pomigliano: non ne vale la pena!

 
Ha fatto bene la FIOM a non firmare il contratto.
 
Ha fatto bene, non solo perché l’ipotesi di accordo mortifica il diritto di sciopero, lo statuto dei lavoratori, il diritto alla malattia.
 
Ha fatto bene perché i sacrifici richiesti non vengono in alcun modo compensati.
 
Lo scambio non è tra lavoro e sacrifici.
 
Lo scambio è tra sacrifici e la speranza di lavoro.
 
Solo una speranza di lavoro può produrre una strategia mulitidomestica in un mondo globalizzato. Ma vediamo le cose più da vicino.
 
La Fiat investe 700 milioni di euro e offre lavoro a cinquemila operai, ma propone un contratto in cui interviene sul diritto di sciopero, diritto alla malattia, con deroghe alla normativa costituzionale (art 40), allo statuto dei lavoratori, al contratto nazionale. Insomma mano libera nei rapporti con lavoratori sul salario, sui turni di lavoro e quindi pause a fine turno, straordinari anche in queste pause e nei turni di riposi, sanzioni disciplinari e anche licenziamento in caso di sciopero su turni di lavoro e straordinari. Il tutto sulla base di un ultimatum: o si fa questo o la Fiat va a produrre all’estero.
 
Dunque un sacrificio enorme viene chiesto ai lavoratori, ma ne vale la pena?
 
Quali i risultati previsti per questo investimento, strutturali o congiunturali. L’operaio può stare tranquillo, oppure da qui a qualche anno sarà costretto a ridiscutere l’accordo con riferimento non più all’operaio polacco, ma all’operaio cinese. E allora non ne vale la pena.
 
Tutto ciò non è dato sapere, eppure qualche ragionamento è possibile farlo, a partire dall’adeguatezza di questa ipotesi di accordo rispetto al mercato e alla competitività globale, che è competitività del sistema Paese.
 
Ma se si parla di globalizzazione se ne deve parlare a 360 gradi e non solo con riferimento al contributo operaio.
 
E allora la prima domanda è questa: la Fiat è organizzata come una multinazionale o come una società globale?
 
Le imprese globali considerano il mondo intero come unico mercato interno. Le diverse unità produttive non producono ciascuna per la propria ristretta clientela, ma al contrario la produzione è destinata ad ogni parte del mondo. La medesima cosa avviene per le funzioni aziendali e quindi per la R&S, il marketing, la finanza. Allo stato attuale la Fiat è una multinazionale con proprie unità produttive in Italia, Polonia e in Brasile, ciascuna dotata di una propria clientela, di una larga autonomia ed iniziativa nel proprio specifici locale mercato di riferimento. La Fiat in una società globale, in un settore globalizzato, non è una società globale.
 
La seconda domanda: la Fiat è attrezzata per la competizione globale?
 
La Fiat, in una competizione globale, ha la necessità di utilizzare tutti i fattori competitivi, non solo quelli del salario e dei turni di lavoro. E’ vero quello che conta è il costo del lavoro per unità di prodotto, e se il costo è minore perché la produttività è elevata, allora può essere utilizzato questo differenziale per mantenere la competitività e i salari dei lavoratori italiani più elevati. La produttività, però, non si sviluppa solo sul versante dell’operaio cinese, ma anche su quello della formazione e scolarizzazione degli operai, della tecnologia dei macchinari, della innovazione di processo e di prodotto, degli assetti organizzativi.
 
Quali gli interventi per la valorizzazione della forza lavoro, quali gli investimenti per la ricerca?
 
Ma la competizione globale è competizione sistemica, le imprese non competono da sole ma con tutto il Paese.
 
E allora la terza domanda: quale contributo la Fiat ha chiesto allo Stato?
 
Quale politica industriale, quali fattori competitivi di pertinenza statale, accompagnano questo investimento.
 
Ha forse la Fiat reclamato una P.A. più efficiente, la semplificazione del sistema decisionale istituzionale, la infrastrutturazione informatica ed industriale, la scolarizzazione di massa più qualificata, una maggiore liberta dei flussi informativi? Si è preoccupata l’azienda torinese di sollecitare questi fattori competitivi? La Crysler ha fatto il contratto con l’azienda italiana all’insegna della green economy, e in particolare ha puntato sulla tecnologia Fiat per la produzione di macchine piccole, e quindi nel quadro del risparmio energetico.
 
In quale contesto di politica industriale italiana si inserisce la costruzione della panda a Pomigliano? In nessun contesto, perché in Italia il Governo non predispone una politica industriale per il Paese. Eppure, in una società globalizzata, la sinergia tra politica industriale dell’impresa e quella statale è indispensabile.
 
In un società globale la competizione è sistemica: Stato, capitale e lavoro fanno parte di un’unica squadra che opera in modo concertato rispetto alla concorrenza estera. E quindi pari dignità e non subordinazione, collaborazione e non conflitto. E allora è compatibile con la competitività globale un sistema di relazioni industriali fondato sull’autoritarismo imprenditoriale e la subordinazione incondizionata dei lavoratori, e quindi sul conflitto, come quello evocato nella vertenza Pomigliano?
 
In situazione siffatta, quale futuro, quali prospettive per i lavoratori? Nessuna prospettiva. Nessuna luce alla fine del tunnel. L’operaio italiano contro l’operaio polacco, e sullo sfondo l’operaio cinese, in una spirale senza fine. Usati, violentati come armi di ricatto, fratelli contro i fratelli. E così oggi gli operai della CISL e della UIL contro quelli della CGIL, vanno a firmare un referendum suicida, perché non hanno alternative. Sperano di conservare il posto di lavoro a tempo indeterminato, perché così gli è stato assicurato, ma si ingannano.
 
E mentre tutto ciò avviene sulla carne viva degli operai, nel silenzio colpevole dei partiti di sinistra, l’operaio che fa, rimane inerte, subisce?
 
E allora bando all’immobilismo, alla paura e scenda in campo l’impegno di tutti per allargare i conflitti non solo a livello spaziale, ma anche di categoria, perché laddove esiste uno sfruttamento, là esiste la genesi di altri sfruttamenti. Dunque dimensionare il conflitto su spazi più vasti e su più strati sociali, perché se le imprese sono globali anche i diritti dei lavoratori devono essere globali. Al potere delle imprese di andare a produrre all’estero, di utilizzare precari ed extra comunitari, deve corrispondere una omogeneità di diritti sociali, nei vari strati sociali e nelle varie parti del mondo, ma cominciamo dall’Europa. Diversamente il potere di decentramento industriale, la presenza di precari e di extra comunitari, diventa un’arma di ricatto. E questo devono avere ben presente i sindacati, se non vogliono essere subire ultimatum.
 
Il compito è gravoso, ma qualcosa si può fare. Ma occorre lottare e resistere.

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