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Pioggia di monete. Un triste presagio?

Il 30 marzo, manifestanti del Popolo Viola e del Pd erano radunati davanti a Montecitorio per un sit-in contro il processo breve, quando hanno contestato duramente il Ministro della Difesa Ignazio La Russa, lanciandogli delle monetine. Un gesto che ha ricordato la contestazione che subì Bettino Craxi il 30 aprile del 1993 quando fu investito da una pioggia di monete uscendo dall'Hotel Raphaël a Roma. Un gesto che divenne uno dei simboli della fine della Prima Repubblica.

Se fossimo sensibili agli insegnamenti della storia, non dovremmo semplicemente e stoltamente rallegrarci di fronte al lancio di monetine che il pomeriggio del 30 marzo ha investito il Ministro della Difesa Ignazio La Russa. Su La Repubblica del 31 marzo, Filippo Ceccarelli ci ricorda i precedenti lanci di moneta tintinnante nella storia italiana.

Era il 1971 quando il repubblicano Ugo La Malfa si beccò un lancio di spiccioli da parte di onorevoli del Pci nel Transatlantico. Era accusato di aver consentito, con i voti della destra monarchica e fascista, l'elezione a Capo dello Stato di Giovanni Leone. Ben più famosa la pioggia che investì Bettino Craxi nell'aprile del 1993 all'uscita dell'Hotel Raphaël, il suo quartier generale romano. Soffermiamoci su quest'ultimo episodio, divenuto una delle immagini simbolo della fine della Prima Repubblica. Erano giorni tumultuosi per il Paese. Le macerie del Muro di Berlino erano state ormai (mal)digerite, Tangentpopoli era scoppiata quando il "mariuolo" Mario Chiesa era stato beccato con le "mani nella marmellata" oltre un anno prima, la strategia mafioso-terrorista aveva già scosso il Paese. Sarebbe proseguita nei mesi successivi mettendo in ginocchio uno Stato che si scoprì debolissimo quando il perverso equilibrio che lo aveva contraddistinto non fu più un mistero per nessuno.

Per decenni si era fatto finta di non capire quali fossero i perni sui quali ruotasse una democrazia mai completamente realizzatasi. Il Paese si scoprì nudo e si scandalizzò ipocritamente e ingenuamente, fondendo due atteggiamenti che da noi sembrano spesso andare comodamente a braccetto. La rabbia popolare venne intercettata dagli uomini "nuovi" della politica di quegli anni e dai portaborse della Prima Repubblica che si affacciavano per la prima volta sotto i riflettori della vita pubblica. I post-fascisti depuratisi a Fiuggi, Bossi e Berlusconi furono i maggiori beneficiari di quel terremoto politico-giudiziario che investì il Paese. Gli ex missini potevano finalmente assumere ruoli di governo. Bossi si fece portavoce di una insofferenza verso lo statalismo burocratico e assistenzialista declinato in senso antimeridionalista. Il Cavaliere percorse le onde disegnate dalla paura che attraversava il Paese. Limitandoci a Berlusconi, egli interpretò con la sua filosofia quel malessere e quell'istanza di cambiamento, la fece sua, la rielaborò e si presentò al Paese che gli diede fiducia. Si presentava come l'antipolitico, l'uomo del fare chiamato a far funzionare la macchina statale pachidermica e lontana dai cittadini. Fu amore improvviso. Non fu amore fugace. Un amore quasi ventennale con il triste effetto di sfilacciare il nostro sentimento comunitario, il nostro senso di cittadinanza, le basi della nostra convivenza civile. Sembra essere questo oggi l'esito di quella pioggia tintinnante. Ma in quel pomeriggio a pochi passi da Piazza Navona non si liberarono anche energie positive? Fu quella una risposta "sana" al malessere del Paese? Fu semplice esibizione populista? Se fossimo capaci di rispondere a questo drammatico interrogativo, forse sapremmo meglio interpretare ciò che ci accade sotto gli occhi, il senso che potrebbe prendere la crisi che stiamo vivendo. Un malessere c'è e ci accompagna nella nostra quotidianità. Come sarà capace di raccoglierlo il Paese, l'opinione pubblica, la classe politica? Come saremo capaci di raccontarlo a noi stessi? Speriamo che non vada come l'ultima volta. Non fu stata una questione di sfortuna.

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