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Personalizzazione e partiti personali: sono la stessa cosa?

Nella costruzione della propria strategia comunicativa, Pierluigi Bersani ha cercato più volte di portare al centro dell’agenda il tema della personalizzazione. Ha rivendicato la scelta di non mettere il proprio nome sul simbolo elettorale e ha polemizzato contro i partiti personali – definendoli “cancro della democrazia” – con riferimento anche alla lista “Scelta Civica” di Mario Monti.

Il tentativo di condizionare l’agenda e di creare su questo un framing redditizio non pare riuscito. Il problema però è di un certo interesse e merita approfondimento.

Effettivamente, Mario Monti è stato rapido nel modificare la sua immagine di fine tecnocrate e nel cucirsi addosso un abito diverso e forse non del tutto suo, spingendo al massimo sulla personalizzazione della comunicazione. I media sono stati inondati dalle descrizioni delle qualità salvifiche di Monti, non limitate a ciò che era più scontato (e cioè i risultati di Monti come commissario europeo e capo del Governo) ma mettendo da subito in campo dati biografici molto più personali e “pop”, quali gusti musicali e del tempo libero, esibizione della famiglia, storielle di nipotini, relazioni in prima persona sui social media.

Il risultato di questa strategia è controverso. Il Monti in versione elettorale è sembrato molto diverso da quello che gli italiani hanno imparato a conoscere in questo anno di Governo e poco credibile nella comunicazione iper-personalizzata: basti pensare al video agiografico presentato alla convention di “Kilometro Rosso”, così lontano dalla famosa “sobrietà” montiana da risultare quasi imbarazzante.

D’altra parte, è facile tacciare di incoerenza il vanto antipersonalistico di Bersani. Da subito, infatti, abbiamo visto il faccione del Segretario sui manifesti (con la fede nuziale in bella evidenza), video e foto “strappati” al privato (ieri era la birra in solitaria, oggi il ritorno a casa fumando il sigaro e ascoltando Vasco), perfino l’apertura delle primarie dalla pompa di benzina di Bettola.

Dunque, la questione della personalizzazione sembra risolta tacciando di poca credibilità Monti e di incoerenza Bersani. È sufficiente? A me pare che il nodo di fondo non sia stato ancora affrontato e che possa essere utile una descrizione più analitica del problema, sgombrando il campo da elementi che creano un po’ di confusione.

Quando parliamo di personalizzazione e di partito personale, ci riferiamo allo stesso fenomeno?

La personalizzazione è un’evoluzione dei paradigmi della comunicazione politica, un dato di contesto (del “paesaggio” direbbe Bersani) incontestabile, frutto delle mutazioni storiche del modello di rappresentanza e della società mediatizzata. Molti studiosi la considerano un segno di modernizzazione.

Bersani dunque sbaglia a scagliarsi contro la personalizzazione tout court: come dice Mario Rodriguez, la fiducia ha una dimensione personale ineludibile e la mediatizzazione della politica – soprattutto attraverso il mezzo televisivo – definisce un campo di gioco in cui le relazioni si costruiscono con le persone.

Ma la personalizzazione così intesa, a mio avviso, non conduce inevitabilmente ad un rifiuto dei processi democratici e partecipativi delle organizzazioni politiche, né nella forma dei partiti personali descritti dai politologi (in primis Mauro Calise), né nella estremizzazione proposta da quelle formazioni definite unicamente dalla presenza di un certo candidato (senza il quale non esisterebbero; e qui sta la principale differenza con i partiti personali di Calise), come appunto la lista di Mario Monti.

Televisione e mediatizzazione, infatti, non esauriscono le dimensioni in cui si cristallizzano le rappresentazioni dei cittadini. Ilvo Diamanti in un recente e riuscito libro (“Gramsci spiegato a mia suocera”) ci ha invitato a riconoscere la limitatezza delle analisi politologiche, che sottovalutano la sfera del senso comune, secondo un approccio antropologico che vale anche nell’analisi del dato politico. Ciò significa che le persone costruiscono la loro posizione anche a partire dalle interpretazioni che si formano nella vita quotidiana, mettendo assieme pezzo per pezzo un grande mosaico di cui la sfera mediatica è solo una parte.

Se la percezione di un partito non si esaurisce nella sua immagine mediata, occorre riscoprire la forza delle forme organizzative (ossia i modi con cui un partito sta nella società), della cultura organizzativa (i valori che incarna e riproduce nel tempo) e delle influenze che questi due elementi possono avere sulla percezione degli elettori – e dunque sulle dinamiche della comunicazione.

L’accettazione della personalizzazione non porta inevitabilmente al partito personale: in questo forse possiamo trovare l’elemento più interessante e “salvabile” della posizione di Bersani.

Il PD negli ultimi anni ha cercato di definire una modalità organizzativa maggiormente orientata alla costruzione di una partecipazione effettiva, negli ultimi tempi anche con scelte efficaci come le primarie per la selezione delle candidature. Su questo, è giusto che Bersani investa anche in termini di comunicazione, rivendicando la propria alterità.

Il problema è che questo obiettivo non può ridursi alla scelta simbolica dell’eliminazione del nome del candidato dal simbolo elettorale, né al rifiuto di una comunicazione che abbia al centro il leader come persona (rifiuto, in effetti, affatto praticato).

Semmai ha più senso individuare ulteriori elementi di innovazione coerenti con l’idea della primazia del collettivo rispetto al leader pro-tempore, anche con forme referendarie e di democrazia diretta che entrino nei temi del programma e nelle priorità di governo. Ad esempio, sulle questioni potenzialmente divisive per la coalizione, i partecipanti alla coalizione “Italia Bene Comune” hanno annunciato che chiameranno i parlamentari a votare a maggioranza. Perché non pensare di associare alla votazione dei parlamentari anche forme di consultazione di elettori ed iscritti?

Michele Cocco

Questo articolo è stato pubblicato qui

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