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Perché il Terzo Settore è strategico per la ripresa del Paese

La crisi che il sistema mondiale, europeo e italiano stanno vivendo in questo periodo mette in seria discussione il modello ordoliberista che vede lo Stato avente un ruolo di garanzia (e di semi-passività) rispetto alle regole del mercato: regole onnipervasive che hanno gestito anche quello che dovrebbe essere il Terzo Settore.

 Ora la crisi, dopo decenni di arretramento dell’azione pubblica statale, soprattutto nelle sfere economica e sociale (in cui si è vista la trasformazione da beni comuni a beni privati), allo Stato è richiesto di prendere in mano le redini di un carro il cui cocchiere, il mercato, ha lasciato il posto alle prime avvisaglie di rallentamento. Gli Enti del Terzo Settore e lo Stato, nell’ambito socio-sanitario, possono (e devono) approfittare di questa situazione per spezzare la dicotomia Stato-Mercato che ha fatto da sfondo alla lotta politica di questi anni in cui l’unico contrappeso al capitalismo è parso essere il governo. Ma non è affatto scontato che debba essere così e che lo sia, poiché la condotta del governo è influenzata dalle idee politiche dei partiti che lo sostengono e dagli interessi organizzativi che sono presenti al suo interno.

L’importanza degli ETS (Enti del Terzo Settore) è sotto gli occhi di tutti e parimenti il contributo che queste organizzazioni stanno offrendo: le scuole con la loro subitanea organizzazione dell’ e-learning; il mondo del volontariato con azioni e microreti territoriali ha pemesso di evitare che le persone più fragili e provate si trovassero isolate; le cooperative sociali e di inserimento lavorativo che hanno riconvertito il lavoro per fornire strutture di ricovero, camici e mascherine. Grazie alla loro storia e agli anni di impegno, gli ETS stanno fattivamente dimostrando di saper svolgere una azione capillare che la PA non è in grado di compiere, per mancanza di risorse le più disparate (e parliamo di quelle sia umane che finanziarie) e per la quale il mercato non ha interesse, essendo un settore che non risponde alle sue logiche.

L’ordine economico e sociale sarà profondamente ridisegnato da questa crisi, e allora anche per il Terzo Settore, che ne uscirà duramente provato, occorrerà ponderare un ripensamento che grosso modo si presenta come una biforcazione: “bisogna decidere sin da ora se si vuole scommettere semplicemente sulla ripresa del sistema tradizionale delle imprese – grandi medie e piccole – alimentate dalla ripresa di un mercato privato grazie ai robusti sussidi concessi dallo Stato alle famiglie, o se accanto a ciò si intende investire su soggetti in grado, se sostenuti, di rigenerare su nuove basi ad un tempo il tessuto economico e quello sociale, gli ETS appunto” (Costruire il futuro del Terzo settore ai tempi del Covid-19, Felice Scalvini).

Non solo aiutare le organizzazioni esistenti ad uscire dalla fase critica ma anche completare la riforma del Terzo Settore dando completa attuazione all’art. 55 del Codice del Terzo Settore che, “proprio in attuazione dell’art. 118, IV comma della Costituzione, ridisegna in chiave partecipata e collaborativa i rapporti tra Pubblica Amministrazione e Terzo Settore” (Costruire il futuro del Terzo settore ai tempi del Covid-19, Felice Scalvini). Questo permetterebbe di ingaggiare tutte le forze valide che rischiano di finire nell’area del non lavoro, inserendole in un circuito di sostegno economico legato ad attività lavorative sui beni pubblici e comuni; in altre parole un circuito di dignità. Il tutto senza modifiche alle attività che sono già previste dall’ art. 5 del Codice del Terzo Settore.

A questo rinnovamento sono chiamati gli ETS stessi, che devono partecipare verso una prospettiva comune e verso una vicendevole e duratura collaborazione: non più imprese sociali concorrenti tra loro ma cooperanti. In ciò lo Stato deve dare carattere di urgenza alla creazione del Registro Unico.

Va ripensato in questo senso il protagonismo dell’ente legato al territorio, un ente locale che non deve essere solo regolatore o appaltatore ma agente nella creazione di un “buono” sviluppo che promuova e sostenga relazioni solidaristiche sostanziali e non solo formali. Co-programmazione e co-partecipazione, che come messo in evidenza dalla Sentenza 26 giugno 2020, n. 131 della Corte Cistituzionale, saranno esiziali e sono già previsti dall’ordinamento giuridico (art. 55, comma 2, del CTS). La co-programmazione ha il grosso vantaggio, in un un tempo politico caratterizzato da una apparente esiguità di risorse economiche (forse dovuto al paradigma esistente) di essere, se si eccettuano i costi tipici dei provvedimenti amministrativi, a costo zero. Alla co-programmazione va aggiunta la pluriennalità che può ulteriormente toglere il carattere emergenziale che denota l’assistenzialità spiccata del welfare attuale

Per il Terzo Settore, se non si vuole che il mantra ripetuto durante le prime settimane di quarantena, “andrà tutto bene” siano vane parole, si aprono spazi interessanti. L’articolo 48 del Decreto Cura Italia, ad esempio, prova a fornire un indirizzo in merito alla rimodulazione del sistema dei servizi sociali afferenti le attività diurne socioassistenziali e sociosanitarie(segnatamente sui centri di aggregazione, educazione e formazione delle persone disabili). Uno spazio che deve essere occupato in una maniera differente rispetto ad una logica economicista che negli anni ha invaso anche il Terzo Settore e la parte amministrativa pubblica ad esso legata, e che ha agito secondo logiche di domanda ed offerta. Questa idea del servizio socio assistenziale ha appesantito l’apparato pubblico e ostacolato la creazione di reti sociali territoriali e di assistenza di prossimità (prendersi cura del disabile sì, ma assistere anche la sua famiglia, a titolo d’esempio). La co-programmazione pluriennale deve essere dunque anche accompagnata da un ripensamento del ruolo del Terzo Settore che deve (tornare ad ?) essere riferimento della comunità slegandosi da un modello che in questi anni lo ha visto sempre più monotematico. Il tema del nuovo Terzo Settore deve essere il territorio nella sua varietà sociale e con la necessità di modellare il suo servizio su di esso, in base alle indicazioni della pubblica amministrazione.

L’antropologia sottesa ad un nuovo ruolo degli ETS è quellal che vede anche il privato come operatore di sviluppo organico delle persone, e che vede l’individuo o gruppi di individui nella possibilità e nella volontà di operare non nell’ottica utilitarista del profitto. Tutto ciò è ben differente dalla filantropia che, come atto in sé, in realtà accetta la bontà (con più o meno rassegnazione) del modello vigente. Fare “impresa sociale” nel contesto tutt’altro che roseo che pare aprirsi, significherà cercare di colmare il più possibile il divario tra ente benefattore ed assistito, ovverosia rendere autonomo l’assistito (certo nei limiti delle possibilità), cercando di inserirlo nel tessuto sociale e restituendo, con l’inclusione, anche la dignità personale. Infatti nella disposizione costituzionale (art. 118) si è voluto superare l’idea per cui solo l’azione del sistema pubblico è intrinsecamente idonea allo svolgimento di attività di interesse generale e si è riconosciuto che tali attività possono anche essere perseguite da libere associazioni di cittadini che, agendo secondo il principio di solidarietà, risultano ancorati nella comunità di cui fanno parte (e per comunità si può benissimo intendere Paese). Dunque il valorizzare la socialità, la dimesione sociale della persona umana, significa dare valore, morale, giuridico e politico ad azioni positive e responsabili. Val la pena di ricordare che, prima della nascita dello stato moderno, le relazioni di solidarietà e iniziative di autonoma mutualità erano ben presenti in una molteplicità di realtà associative (società di mutuo soccorso, opere caritatevoli, monti di pietà, a titolo d’esempio), e che istanze solidaristiche accompagnate a visioni di riforma sociale ed economica sono contemperate dalle due grandi tradizioni politiche italiane che hanno influenzato la Nostra Carta, quella socialista e quella popolare. Una tradizione che non pensa solo alla solidarietà presente ma che guarda alla società nella sua continuità temporale, soprattutto relativamente alla qualità della vita delle generazioni future (se c’è una cosa che non viene adeguatamente ponderata nell’attuale sistema economico e ambientale è proprio la sostenibilità per chi verrà dopo di noi).

Una visione nuova che potrebbe ampliarsi e concretarsi al medesimo tempo. Riprendendo la summenzionata sentenza, essa offre già uno spunto per allungare la lista degli ETS ai Commons infrastrutturali, in questo caso “cooperative di comunità” così come definite dalla legge della Regione Umbria 11 aprile 2019, n. 2 , “le quali, anche al fine di contrastare fenomeni di spopolamento, declino economico, degrado sociale urbanistico, perseguono l’interesse generale della comunità in cui operano, promuovendo la partecipazione dei cittadini alla gestione di beni o servizi collettivi, nonché alla valorizzazione, gestione o all’acquisto collettivo di beni o servizi di interesse generale”. Queste cooperative “stabiliscono la propria sede e operano in uno o più Comuni della Regione, nonché prevedono nello statuto o nel regolamento forme di coinvolgimento dei soggetti appartenenti alla comunità di riferimento, modalità di partecipazione degli stessi all’assemblea dei soci e la possibilità di nominarli nel consiglio di amministrazione” e “hanno «come obiettivo la produzione di vantaggi a favore di una comunità territoriale definita alla quale i soci promotori appartengono o eleggono come propria nell’ambito di iniziative a sostegno dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale volte a rafforzare il sistema produttivo integrato e a valorizzare le risorse e le vocazioni territoriali e delle comunità locali nonché a favorire la creazione di offerte di lavoro”.

Nel comma b dell’art. 5 delle legge regionale si fa poi menzione diretta alla co-programmazione e all co-progettazione secondo appunto le norme del Codice del Terzo settore (per le quali le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale, assicurano il coinvolgimento attivo degli ETS attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento) , estendendo dunque la lista degli Enti ad un ambito nuovo.

Al di là della conclusione della sentenza, che dichiara illegittimo, in base alle norme vigenti l’estensione agli ETS delle “cooperative di comunità”, viene riaffermato il valore costituzionale del Terzo Settore, degli strumenti di co-programmazione e co-progettazione e della visione antropologica che ne è il fondo.

Anche il diritto dell’Unione Europea (direttive 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione), prevede una valorizzazione del modello solidaristico ma solamente come eccezione al principio della concorrenza e soltanto per attività a marcata rilevanza sociale. Tutto il resto rimane invariato, e per resto intendiamo il paradigma ordoliberista che fa della concorrenza il suo perno.

Solo così, con il ripensamento del suo ruolo funzionale, delle sue possibilità di azione, il Terzo Settore può essere quello straordinario grimaldello per superare l’ordine attuale ed evitare il tracollo sociale.

Foto: Pixabay

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