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Per ricordare Pietro Ingrao

Intervento al XI Congresso – 27 gennaio 1966

Pietro Ingrao

delegato di Firenze

Compagne e compagni, il rapporto del compagno Longo ha richiamato con forza l’attenzione nostra e del partito sulla crisi di governo che è in atto.

Siamo tutti consapevoli che tale crisi non è un qualsiasi incidente e trae origini da questioni non marginali.

Certo: essa è legata alla lotta di potere nella DC, e ha visto scendere in campo, nella vicenda della scuola materna, soprattutto la destra clericale, ma non solo essa: e la stessa destra clericale è scesa in campo perché sapeva che esistevano altri problemi ed altre dissidenze, collegate a fatti di vasta portata.

Quali sono questi fatti? 1) L’unificazione fra PSI e PSDI, che apre alla DC, su terreni non ancora definiti, problemi di concorrenza con la nuova forza socialdemocratica nei riguardi di determinati strati e gruppi sociali. 2) Le modificazioni avvenute negli orientamenti della Chiesa che indeboliscono, oggi, la componente sanfedista e più direttamente confessionale, di cui la DC si è servita in questi anni come uno degli strumenti di collegamento e di imbrigliamento delle masse; modificazioni che spingono la DC a difendere la sua presa sullo Stato, ricercando in una sua propria « efficienza » un titolo nuovo ed altrettanto solido al monopolio di potere: alludo insomma a tutta la tematica del convegno d Sorrento. 3) Infine l’insofferenza sempre più forte della sinistra democristiana che minaccia, ormai, sovente, di scavalcare a sinistra i socialisti e che, quindi, a giudizio degli alfieri del centrosinistra, deve essere o assorbita o emarginata.

Tali questioni sono la sostanza su cui poi si innesta lo scontro delle fazioni, reso più complicato per il fatto che oggi esso si svolge in un situazione sociale difficile, che offre margini ristretti di giuoco e in cui agisce una grande forza di opposizione al sistema quale è la nostra.

La crisi, dunque, ravvicina determinate scadenze e acutizza,molti problemi: il processo di unificazione socialdemocratica, la questione dei rapporti interni e della collocazione stessa della DC, la non semplice definizione di priorità programmatiche di governo.

È, dunque, una crisi che sconsiglia ogni attesa; e proprio la consapevolezza della instabilità del momento politico ci sollecita ad intervenire oggi, quando una serie di processi sono tuttora in corso e sul loro esito si può seriamente influire. Ma come intervenire? Con quali lotte, con quali scelte e con quale discorso? Ecco il problema politico immediato, che coinvolge questioni di fondo.

Nel progetto di tesi noi abbiamo affermato che non è possibile una riedizione del centrosinistra su basi più avanzate e abbiamo detto che noi combattiamo questa politica e questa formula in radice. Le ragioni di questo giudizio e di questa linea politica sono chiaramente espresse nelle tesi ed io non ho bisogno di ricordarle.

Dobbiamo, dunque, rendere chiaro alle masse e alle forze socialiste e cattoliche che una riedizione del centrosinistra comporta una ulteriore accelerazione dei fenomeni negativi oggi in atto: riorganizzazione monopolistica con le gravi conseguenze già in corso sui livelli di occupazione e sul tenore di vita delle masse; integrazione accresciuta nel sistema dei monopoli internazionali; svuotamento delle istituzioni democratiche; logoramento del tessuto unitario.

Dobbiamo spingere le masse e le forze politiche democratiche, ad una lotta contro questa prospettiva, che parta dalla crisi e si prolunghi nel futuro. In altre parole la nostra azione deve far avanzare nel corso di questa crisi la lotta per contenuti programmatici nuovi ed insieme la maturazione di un’alternativa generale alla situazione attuale, le condizioni per una nuova maggioranza.

 

Per la DC è oggi difficile e costoso compiere un’operazione di centrodestra. Esiste, dunque, una situazione favorevole perché la sinistra incalzi la DC e la metta in difficoltà. Se la DC non si sposta, la sinistra italiana non deve temere di andare all’opposizione ed anche di affrontare nuove elezioni.

Bisogna rivalutare la battaglia che si conduce dall’opposizione come spinta e stimolo per una svolta politica e per la creazione di una nuova maggioranza.

Questa azione nostra deve rivolgersi a tutta la sinistra; deve cercare di influire e premere anche sulla destra del PSI, anche su quelle forze che sono chiaramente orientate oggi verso la unificazione socialdemocratica e verso una stabilizzazione del centrosinistra. Tutto ciò che accresce la resistenza della sinistra cattolica, del PSI, dei socialdemocratici, dei repubblicani è utile e positivo.

Ma se noi ci limitassimo a questo, riusciremmo ad assolvere solo ad un ruolo di attrito e di resistenza, alla lunga insostenibile; non andremmo oltre ad un compito di sostegno della socialdemocrazia; finiremmo, insomma, al massimo, per assolvere al ruolo che, appunto, ci chiede l’Avanti. Il problema, invece, è per noi quello di far . leva sulle contraddizioni presenti nella maggioranza e più ancora sulle contraddizioni fra la politica della DC e del centrosinistra ed i problemi del paese per far avanzare una nuova unità su posizioni di alternativa.

Il primo passo in questa direzione riguarda una nuova unità delle forze che lottano consapevolmente per il socialismo e contro la unificazione socialdemocratica, ma che ancora non hanno trovato una strada comune su cui marciare a passo spedito. Alludo, prima di tutto, alla forza nostra, del PSIUP e della sinistra socialista.

Che cosa vuoi dire questa indicazione? Vuoi dire avere una visione ristretta e statica dell’unità da raggiungere? Vuoi dire segnare uno steccato fra queste forze e le altre forze socialiste, di base e di vertice, che ancora non vedono chiaro o si muovono in modo sbagliato? Nient’affatto. Noi vogliamo suscitare una lotta che deve aprire e che aprirà una dinamica anche nelle forze che oggi sono schierate con il centrosinistra e con la sua strategia. Ma noi sappiamo quanto valore abbia per raggiungere questo scopo il costituirsi di un nuovo polo unitario, di una prima raccolta di forze.

Come giungere alla costituzione di questo nuovo polo unitario? Pensiamo solo ad una unità di azione oppure ad un processo che possa sboccare anche nell’unità organica, nella unificazione in un solo partito? Le tesi, voi lo sapete, danno una risposta positiva alla proposta di unificazione delle forze socialiste su basi classiste e rivoluzionarie; e martedì il compagno Longo, nel suo rapporto, ha riproposto con forza questo obiettivo.

Ritengo che la risposta che le tesi danno sia una risposta giusta; e consentitemi di sottolinearlo perché su questa questione dell’unificazione la stampa borghese ha imbastito fantastiche contrapposizioni personali che non hanno alcun fondamento.

L’esigenza della unificazione è reale ed attuale ed ha ragione Amendola quando dice che tutto il partito è chiamato, oggi, a portarla avanti nel modo giusto.

E l’esigenza è valida non solo perché questa è la via per evitare una frantumazione e dunque un ripiegamento, o una rinuncia, o una fuga estremistica delle migliori forze socialiste (se si trattasse solo di questo basterebbe rivolgere ad esse un appello ad entrare nel nostro partito e nelle nostre liste elettorali), ma perché noi consideriamo vitale ed importante la componente socialista del movimento operaio italiano, la tradizione, i valori, le forze sociali che essa raccoglie e chiediamo ad essa di lavorare con noi per uno sviluppo della strategia di avanzata rivoluzionaria nel nostro paese, della costruzione di un nuovo cammino verso il socialisrno. Vogliamo insomma attuare un processo unitario reale, non con frange ma con una forza politica socialista, per spostare in avanti, insieme con essa, tutta la nostra lotta per la trasformazione della società.

Sono da respingere aspramente le posizioni — sovente di estremismo infantile — che in questi anni hanno cercato di presentare una visione calunniosa del nostro partito e della nostra politica come di una forza statica e chiusa la quale avrebbe fallito il suo compito storico; e che hanno tentato di cancellare un patrimonio originale e grandioso di esperienze e di lotta con la formula ridicola « sui 20 anni di errori ».

Queste posizioni servono solo a dividere ed a smobilitare. Ma proprio perché partiamo dalla consapevolezza di ciò che abbiamo creato, sentiamo non solo la esigenza, ma la capacità piena del nostro movimento di andare avanti, di costruire una unità nuova e più ricca. Non abbiamo bisogno di difendere il nostro patrimonio politico ed ideale in un campo trincerato, perché i campi trincerati sono la risorsa degli eserciti in ritirata, e questo non è vero per il nostro esercito e per la nostra battaglia.

Per superare settarismi e diffidenze, per uscire dal terreno degli appelli, bisogna però accelerare il lavoro per la elaborazione dei contenuti, dei programmi, delle esperienze di lotta che debbono qualificare e rendere concreto il processo di unità delle forze socialiste. E mi sembra che questa sia la direzione a cui ci chiamava il rapporto di Longo.

Certo, qui noi ci incontriamo subito con le grandi questioni di prospettiva: la strategia della coesistenza e delle riforme strutturali, i contenuti ed i modi di una nuova società socialista, il regime interno del nuovo partito, la sua autonomia e collocazione nel movimento operaio internazionale. Su questi temi vogliamo e dobbiamo sviluppare la ricerca ed il dialogo impostati con il documento di giugno. Ma l’esperienza ci dice che anche questa ricerca generale deve essere collegata, oggi, con la elaborazione di un programma alternativo, che stimoli la lotta in atto, lavori già ora a modificare la realtà e si presenti come una proposta rivolta a tutta la sinistra. Questo mi sembra il significato importante dell’idea di Lombardi di un « nuovo Eliseo ».

Elaborazione comune, dunque, e anzitutto in due direzioni. La prima è quella della politica estera nel suo senso più profondo, nel senso della collocazione internazionale del paese. L’on. La Malfa sull’ultimo numero dell’Astrolabio mi chiede: « Che cosa hanno a vedere i problemi del Vietnam con i problemi del meccanismo di sviluppo? ». C’è una prima risposta, assai semplice, ma essenziale da dare a La Malfa. I problemi del Vietnam hanno a che fare con le sorti della pace nel mondo e cioè con la base stessa del progresso e — oggi dobbiamo dire — della sopravvivenza stessa della civiltà quale gli uomini l’hanno costruita. Noi più di ogni altro sentiamo di dare questa risposta, poiché per la nostra lotta, per la nostra tradizione, per la nostra dottrina, forse meglio di altri possiamo intendere la natura dell’imperialismo e la minaccia che porta nel suo cammino; e inoltre perché siamo impegnati in una trasformazione che non è marginale, che non può essere chiusa nei confini del nostro paese e che tanto più sarà piena e libera quanto più sorgerà dall’espansione della ricchezza e dei valori che scaturiscono dal lavoro umano.

Voglio dire che il legame fra il cammino del nostro popolo e la lotta mondiale antimperialista non sta solo nel fatto che la pace, la libertà, la giustizia degli uomini sono indivisibili. Vi è un legame più vasto e diretto.

L’economia e la politica italiana sono ormai parti di un sistema mondiale integrato; e purtroppo le forze che governano oggi questo sistema sfuggono in buona parte al controllo del nostro popolo. Non esiste prospettiva duratura per un tipo nuovo di sviluppo economico e di struttura del potere se non si contesta questo condizionamento e se non si costruisce un diverso rapporto fra mondo ed Italia, fra Italia ed Europa.

Esiste, dunque, un nesso immediato e diretto tra la possibilità di un nuovo sviluppo nazionale e la lotta contro il dominio imperialistico nel mondo. Non solo l’aggressione imperialistica violenta, ma lo status quo, il congelamento della situazione tolgono spazio alla nostra lotta. Il movimento operaio italiano perciò non può farsi i « fatti suoi », isolato dal resto del mondo. Ecco un’altra ragione che rende cosi vicino, diretto, lo scontro attuale nel Vietnam come scontro in cui è in giuoco in uno scacchiere fondamentale l’equilibrio del potere imperialistico e dalla cui soluzione dipende tanta parte degli sviluppi futuri dei rapporti internazionali di classe. Ecco il valore dell’unità del movimento internazionale operaio, non solo come unità primordiale ed immediata contro le aggressioni e contro le ingerenze dell’imperialismo, ma come lotta comune, nella diversità, per battere la strategia dell’imperialismo.

Ed ecco allora quello che mi pare l’aspetto più nuovo e più grave delle posizioni cinesi: il fatto di affermare la impossibilità della unità del movimento, di puntare sulla rottura, sull’isolamento, sulla scissione. Perciò noi domandiamo: dove vogliono arrivare i compagni cinesi? Il loro giudizio errato e calunnioso sulla Unione Sovietica, la loro stessa valutazione non giusta dell’imperialismo e dei suoi strumenti, li portano a non vedere come anche per loro — come paese e come rivoluzione — non vi è spazio e prospettiva (se non forse a prezzi tremendi!) senza la unità, la lotta comune, la convergenza di tutte le forze progressive e di pace del mondo intero.

Ed ecco il valore del metodo e della risposta a quegli errori che Togliatti tracciò nel memoriale di Yalta: una risposta che evita scomuniche non già perché non vede la gravita degli errori ed il carattere scissionista dell’azione cinese, ma anzi perché avverte pienamente le conseguenze gravi di una rottura, e vuole sviluppare un’azione di critica ferma e di dibattito che punti ad una crisi della linea politica sbagliata dei compagni cinesi, non all’isolamento della Cina dallo schieramento antimperialista.

Noi non siamo affatto per attenuare la lotta alle posizioni sbagliate dei compagni cinesi; siamo per condurre avanti tale lotta in modo che ci consenta di ridurre al minimo possibile il danno dello scissionismo cinese e di mantenere aperte le condizioni per un ritorno all’unità. E si vede oggi dai fatti che l’autonomia internazionale del nostro partito — questo elemento essenziale della nostra strategia — noi l’abbiamo affermata non per chiuderci in un isolamento provinciale, ma per recare un contributo più pieno allo sviluppo del movimento, alla lotta mondiale per la pace, per l’emancipazione dei popoli, per il socialismo.

Questa vocazione internazionalista però non è solo nostra: non deve essere solo nostra. Vi è una storia, una tradizione, una presenza dell’ala socialista del movimento operaio italiano, che non è solo atteggiamento ideale, ma patrimonio politico, contatto con forze europee e mondiali, elaborazione che può e deve confrontarsi con la nostra. Anche qui vi è un terreno di azione comune, vi è una urgenza ed una disponibilità.

Lo schieramento italiano di pace sta riprendendo slancio, vigore ed articolazione: soprattutto sta passando — ecco, secondo me, il fatto nuovo — dalla protesta all’iniziativa. I giornali borghesi gridano allo scandalo perché noi abbiamo valorizzato l’iniziativa di La Pira ed il dibattito che essa ha aperto. Ne abbiamo motivo, compagni, perché quel dibattito e quella iniziativa sono il frutto di un movimento, o almeno di uno sforzo comune che non si accontenta più di testimoniare e di protestare, ma vuole pesare in nome dell’Italia, vuole influire sulla politica estera italiana, vuole ormai esprimersi in obiettivi concreti e ravvicinati.

Per l’individuazione e il raggiungimento di questi obiettivi ravvicinati il contatto unitario delle forze operaie e socialiste può dare oggi un decisivo contributo. Parlo di obiettivi che ormai devono essere perseguiti a livello europeo e perciò chiedono l’incontro di forze come la nostra, come Quella cattolica e socialista che hanno o possono realizzare azioni e collegamenti di dimensione europea e mondiale.

L’altro punto cardine di un programma della sinistra è quello della Politica economica. Non a caso su di esso converge oggi la discussione; e non a caso appare sempre più chiaro che oggi misure parziali, operazioni di tipo congiunturale, data la natura dei problemi, non servono a molto lo avvertono oggi anche i dirigenti dei grandi gruppi capitalistici.

Tutti sentiamo che è venuto al pettine in modo drammatico il problema dell’accumulazione, del suo carattere limitato, dispendioso, irrazionale e con questo problema ci si deve misurare. A questi problemi il sistema fornisce una risposta in cui vari elementi si condizionano: intensificazione dello sfruttamento, aggravamento della disoccupazione, concentrazione sia del potere che delle risorse, subordinazione internazionale.

Per contestare questa linea occorre poter modificare, gradualmente ma nel suo insieme, il meccanismo che presiede lo sviluppo. Questo dicono le nostre tesi, e propongono una linea di politica economica la quale affronti e liquidi immediatamente le rendite vecchie e nuove di ogni settore, selezioni secondo una precisa e nuova priorità i consumi, controlli ed orienti gli investimenti per operare una conversione dell’apparato industriale come base e perno di un diverso sviluppo, di una riforma agraria, di una soluzione della questione meridionale. Ciascuna di queste direzioni di intervento rende effettivamente possibile l’altra, la sostiene e le da senso concreto. Questo è il programma reale che noi proponiamo, oggi, alla discussione della sinistra come la sola alternativa realistica al tipo di sviluppo monopolistico; e non nascondiamo che esso comporta profonde riforme istituzionali, un nuovo tipo di gestione dell’economia, una forte e permanente mobilitazione del paese e, dunque, una modificazione profonda degli equilibri di potere e di classe..

Già a Ravenna io respinsi il giudizio di La Malfa che tendeva a presentare la proposta economica contenuta nelle nostre tesi come un coacervo di rivendicazioni. E lo feci non solo per dovere di partito, e non solo perché era inaccettabile una valutazione che ignorava il patrimonio di ricerca, di elaborazione e di lotta che porta con sé una grande forza come la nostra, ma perché nel progetto di tesi la nostra proposta economica faceva un passo avanti reale rispetto al passato. E la esigenza che io affacciavo nel Comitato centrale di ottobre tendeva a dare più evidenza a quelli che a me sembravano gli elementi nuovi delle tesi, alle connessioni che le tesi sottolineavano, alla risposta che esse davano, mi sembra, non solo al tema dei contenuti delle riforme, ma più ancora al modo con cui mediante le riforme noi proponiamo di affrontare la questione di un nuovo meccanismo di accumulazione.

Mi sembrava che dando evidenza centrale — forse anche con una forzatura politica, lo riconosco — a questi elementi nuovi si desse stimolo ad una ulteriore ricerca, al dialogo con le altre forze, allo sviluppo ed alla qualificazione del movimento stesso di lotta.

Comprendo la preoccupazione manifestata da numerosi compagni circa il pericolo di andare ad esercitazioni intellettualistiche o, come ha detto Longo, all’astratta ricerca di un «contropiano» più o meno perfetto.

In realtà mi sembrava e mi sembra (e ce lo confermano i fatti) che la sottolineatura di determinati contenuti programmatici e delle connessioni esistenti fra di loro porti non già a mortificare, ma a sviluppare il movimento su terreni dove esso registra tuttora una particolare debolezza e difficoltà, e che costituiscono, certo, solo una zona dello scontro sociale e politico, ma una zona da cui tante altre dipendono.

Ieri il compagno Amendola ci ha presentato un grande e drammatico tema di impegno e di lotta: la questione della disoccupazione. E ci ha proposto un programma di emergenza che in realtà comporta un quadro vasto di misure non solo immediate, bensì di grossa portata strutturale. Ma non faccio questioni di parole.

Mi sembra però che per raggiungere anche solo una parte degli obiettivi di riforma strutturale chi egli giustamente indicava come indispensabili per affrontare — ai livelli attuali — il problema della disoccupazione, sia necessario un tipo di intervento pubblico sull’orientamento degli investimenti e dei consumi che non può limitarsi solo alla sfera dell’azienda pubblica, ma deve incidere anche su settori decisivi che sono nelle mani dei grandi gruppi monopolistici.

Questo mi sembra uno dei punti da mettere in forte evidenza, e non per fughe in avanti o per gusto o civetteria di obiettivi più avanzati o per restringere solo a questi punti la lotta, ma perché qui si manifesta tuttora una carenza del nostro movimento e, soprattutto, una difficoltà reale — economica e politica — che potremo sperare solo con un forte impegno nostro e di tutta la sinistra. Faccio solo un esempio che riguarda il mio campo di lavoro, ed in senso autocritico: imporre un tipo di intervento pubblico anche sui grandi investimenti privati significa oggi non solo affrontare con decisione il tema della funzionalità e dei poteri delle assemblee elettive, ma stabilire un collegamento nuovo, più continuo, costruttivo, originale fra i nostri gruppi parlamentari e consiliari e l’azione delle masse. Penso, dunque, all’elaborazione di proposte programmatiche che siano di stimolo al movimento e che attraverso lo sviluppo del movimento (come è avvenuto nel settore dei tessili, della cantieristica, dei trasporti, ecc.) consentano di verificare, correggere, arricchire il programma, consentano, cioè, di farlo divenire lotta vivente.

A questo legame fra programma e movimento si riferiva la formula, del resto nient’affatto originale, del « cartello dei sì ». Alcuni nostri interlocutori esterni hanno dato di questa formula una interpretazione restrittiva. Per essi « unità dei sì » significa « selezione che si realizza attorno ad un programma coerente delle forze che lo approvano » e che per esso si battono.

Ebbene, in una tale interpretazione si perde di vista la complessità della realtà sociale e la dialettica delle forze reali. La costruzione di una volontà politica e di un blocco sociale è sempre, e non può non essere, il risultato di un processo di lotta nel corso del quale matura la coscienza delle masse, si costruisce il loro consenso, si unifica la volontà in una prospettiva. Questo significa costruire il « cartello dei sì ». Qui dobbiamo impegnare le altre forze della sinistra a superare fino in fondo nella pratica, ogni separazione fra lotte immediate e prospettiva, ogni concezione strumentale delle alleanze, ogni riduzione elettoralistica della via italiana al socialismo. Qui dobbiamo chiamare a confronto prima di tutto Lombardi, i compagni del PSIUP, la sinistra cattolica.

Io vorrei accennare solo a due esempi. Il primo è quello della lotta operaia e della unità sindacale.

Oggi è in corso nelle fabbriche uno scontro decisivo, il cui risultato condizionerà profondamente gli sviluppi della situazione. Noi chiamiamo tutte le forze politiche di sinistra a sostenere nel paese la classe operaia in questo scontro. Occorre, però, un sostegno politico oltre che un movimento di opinione. E questo sostegno politico lo si può misurare concretamente oggi su due punti: innanzitutto nella capacità delle forze politiche di sinistra di prospettare e di sostenere, in ogni settore in cui la lotta rivendicativa s’impegna, uno sbocco di politica economica alternativa. Edilizia, industria tessile, elettromeccanica, siderurgia, cantieristica: ecco un terreno ricchissimo su cui costruire con queste forze nel vivo del movimento la base di un programma comune, dando insieme aiuto e respiro alla lotta operaia. In secondo luogo, alludo alla risposta che le forze politiche della sinistra possono dare alle manovre di scissione sindacale. Possono le forze politiche di sinistra — lasciando ai sindacati la piena sovranità delle loro decisioni — rilanciare un discorso comune sulla autonomia del sindacato nella società, sulla sua democrazia, sul significato che tale presenza ed autonomia ha per indicare tutta una prospettiva di espansione e di articolazione democratica, di trasformazione democratica delle strutture?

L’altro esempio si riferisce alle assemblee elettive locali e riguarda la loro capacità, oggi, di divenire strumento diretto non solo di amministrazione, ma di organizzazione della mobilitazione popolare in direzione di determinate riforme sociali e politiche: per conquistarsi da sé, fra le masse, la forza necessaria e per costruire in questo modo terreni reali di espansione della democrazia. Si può avviare nelle assemblee elettive locali una esperienza comune ed una lotta che consentano di dare questo sviluppo di massa alla lotta per le riforme?

Ed è questo stretto rapporto fra programma e movimento che può farci fare un passo in avanti reale anche nel nostro dialogo con i cattolici. La relazione del compagno Longo ha riproposto e sviluppato con molta forza il tema del nostro dialogo con il mondo cattolico, non solo sull’immediato, ma sulla prospettiva socialista e — attraverso la posizione che egli ha esposto sulla questione della laicità dello Stato nella società socialista, contro l’ateismo di Stato — ha portato avanti non solo il discorso nostro sulla libertà religiosa, ma tutta la tematica che si collega alla famosa proposta di Togliatti, raccolta nelle tesi del X Congresso. Mi sembra, questo, uno sviluppo di grande importanza che ha un valore non solo per il nostro discorso con i cattolici, ma più ancora perché conferma a tutte le forze progressive del paese la volontà nostra di cercare una via nuova, unitaria, di avanzata al socialismo.

Io voglio aggiungere solo una osservazione che si collega alle cose che ho appena detto. Al nostro X Congresso noi abbiamo individuato l’insorgere di una contraddizione fra la coscienza religiosa cattolica schiettamente vissuta e la realtà capitalistica attuale. Ne abbiamo ricercato le cause e ricavato conseguenze importanti. Nei tre anni trascorsi da allora quella nostra impostazione si è dimostrata giusta e lungimirante: lasciate che lo diciamo agli scettici, a coloro che ci criticarono, anche ai compagni socialisti o a quella parte dei compagni socialisti che non intesero fino in fondo quella nostra impostazione. La consapevolezza critica del dissidio fra determinati valori religiosi e assetto capitalistico moderno si è allargata fra i cattolici ed ha investito oggi anche una parte assai autorevole delle massime gerarchie. Ecco, dunque, aprirsi un grande spazio al dialogo. E tuttavia un problema ci si presenta: a questa maturazione della coscienza cattolica non hanno corrisposto fino ad ora sostanziali mutamenti negli orientamenti del laicato cattolico che ha responsabilità di direzione politica. La DC, anzi, ha accentuato la sua compenetrazione con il sistema e consapevolmente lo gestisce oggi contro la nuova ispirazione « ecumenica » della gerarchia e di tanta parte della coscienza cattolica. Né si tratta solo dell’Italia; in Germania, in Francia, negli USA non succedono cose molto diverse.

Come combattere questa negativa divaricazione? Ritroviamo qui i problemi del movimento e quelli del programma: in due sensi. Innanzitutto la carenza, l’ostacolo che sentiamo nella maturazione del mondo cattolico, soprattutto in quello italiano, sta nel ritardo e nella povertà dell’elaborazione che dovrebbe tradurre una inquietudine ideale, una coscienza critica m un discorso circostanziato sulla società e sui suoi problemi. Anche nelle forze più avanzate, anche nelle avanguardie cattoliche che s’impegnano in un dialogo con noi, il discorso tende a fermarsi ad un confronto di valori e di esigenze generali; e proprio perciò esso rimane circoscritto a delle élites intellettuali, non incide sulle masse, non si collega alle contraddizioni interne della DC. Individuiamo qui una responsabilità anche nostra, un ritardo anche nostro nel portare avanti su tutta l’area del partito certi obiettivi di trasformazione della società, su cui si può impegnare un confronto con le forze cattoliche organizzate e sviluppare un movimento. Penso, ad esempio, all’impegno nostro ancora limitato nella complessa e delicata questione della famiglia, in quella più vasta dell’emancipazione femminile, nei; grandi problemi della moderna vita urbana.

E un’altra direzione di lavoro va sottolineata. Noi dobbiamo valutare assai più attentamente e combattere i vari e nuovi strumenti di mediazione di cui la DC si serve per sostenere il proprio potere sulle masse cattoliche: strumenti che oggi sono in buona parte indipendenti dalla organizzazione ecclesiastica. Penso al sistema delle moderne clientele, collegate al sottogoverno e al capitalismo di Stato; alla compenetrazione crescente tra potere economico e potere politico; alla utilizzazione del sindacato come forza mediatrice dei contrasti sociali. Penso al nuovo rapporto fra DC ed intellettuali, notevolmente diverso da quello tradizionale, alla soffocante organizzazione del potere nelle « zone bianche ».

Diviene evidente, anche per questa via, che noi non riusciamo a mettere in crisi oggi la DC, né apriremo la strada ad una nuova presenza politica cattolica, se non incidiamo anche su queste armi dell’interclassismo: la lotta per l’autonomia del sindacato e contro la politica dei redditi, per il decentramento e per la democratizzazione dello Stato, la lotta per la riforma della scuola e l’autonomia della cultura sono condizioni e premesse per aprire una dialettica nuova anche fra i cattolici.

Certo: per condurre un dialogo ideale, un’azione di tale impegno, è necessario un partito che sia continuamente, e diffusamente, capace di collegarsi a tutte le spinte potenziali positive che maturano nella società e di organizzare un movimento in cui siano uniti immediatezza e prospettiva.

Ecco, mi sembra, il senso profondo del partito nuovo a cui ci hanno chiamato Gramsci e Togliatti: partito appunto di avanguardia e di massa, che è coscienza critica della classe ed al tempo stesso avanguardia reale delle masse, del popolo, della nazione. Partito che non sovrappone dall’esterno e dall’alto una coscienza politica a un movimento di massa elementare, ma fa maturare tale coscienza politica nel movimento e dal movimento. Per queste ragioni e caratteri — mi sembra — l’esigenza della discussione, della ricerca, della democrazia interna sono stati sempre così vivi nel nostro partito: e non in antitesi all’azione di massa, ma come strumento di azione di massa; e non in antitesi all’unità, ma come strumento di una unità, che non si esprima solo in un voto o in un’adesione generica, ma diventi quotidianamente operante. E perciò comprendo bene l’invito ed il monito di Longo a tutti quanti noi, a non ridurre il partito ad un club di discussione, ad unire sempre la libertà di dibattito all’impegno convinto nell’azione. E ad esso mi sento di aderire senza riserve.

II compagno Longo ha espresso in modo molto netto le sue critiche le sue preoccupazioni sulla questione della pubblicità del dibattito. Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto persuaso. Penso però che ognuno di noi, ed io per primo, non solo dovrà applicare le decisioni del congresso, ma deve tener conto dell’opinione che ci porta qui oggi il segretario del partito, delle ragioni che la motivano, della forte esigenza unitaria che la anima; deve tener conto che egli ci porta tale opinione come frutto e conclusione di una ricerca e di un dibattito precongressuali, che sono stati ampi, aperti, democratici e che hanno visto impegnati centinaia di migliaia di militanti nostri in un libero confronto delle idee.

Sappiamo, e Longo lo ha sottolineato, che in questi anni noi abbiamo camminato nello sviluppo della democrazia interna del nostro partito. Sappiamo che il nostro dibattito precongressuale ha rappresentato ancora un passo in avanti ed è stato una nuova, grande esperienza di arricchimento della nostra democrazia interna, che ha stimolato ognuno di noi a precisare il proprio contributo, a riflettere ed a capire; e che consente oggi a me di portare una adesione rafforzata alla linea politica esposta nelle tesi e nel rapporto di Longo a questo congresso.

— Questo cammino è ciò che conta —, ci ha detto Longo; ed io sono pienamente convinto di questo suo giudizio, e sento l’appello in esso contenuto a guardare i fatti, a portare il proprio contributo positivo nello sviluppo vivente del lavoro del partito.

In questa direzione, nello spirito e secondo le decisioni del congresso, continueremo a camminare per dare soluzione alle nuove esigenze organizzative e politiche che maturano, per portare avanti — come Longo ricordava — « il complesso processo attraverso cui il partito sta cercando di darsi un nuovo e più elevato sistema di rapporti interni », mediante un impegno ed una responsabilità collettivi. Non ho mai pensato, non penso che qualcuno di noi potesse muoversi fuori da queste responsabilità e lavoro collettivi: ritengo fermamente che ognuno che ha una responsabilità in un organismo dirigente sia tenuto a stare alle decisioni che l’organismo dirigente assume di volta in volta circa il lavoro ed il dibattito, circa lo sviluppo del dibattito, come, quando e se portarlo di fronte alla base del partito.

Abbiamo bisogno di una organizzazione della vita interna del nostro partito che chiami ognuno di noi a partecipare sempre più alla elaborazione della linea giusta ed alla lotta per attuarla; e proprio in nome di questa necessità siamo contro le correnti, contro le frazioni che cristallizzano le posizioni, rompono il partito ed in questo modo bloccano lo sviluppo di una reale democrazia.

Ed io sono d’accordo con l’affermazione che faceva giorni or sono il compagno Berlinguer alla TV, che questa nostra preoccupazione di collegare la democrazia all’unità nella lotta — questo problema che non è semplice da risolvere in ogni momento — deve essere vista anche dai nostri interlocutori non in funzione di una nostra volontà egemonica, ma come una garanzia per tutta la lotta ed il discorso comune, come un elemento di forza di tutto lo schieramento che agisce per la democrazia e per il socialismo.

Abbiamo bisogno di democrazia per essere più uniti. Abbiamo bisogno di unità per realizzare una democrazia che non sia di parole, ma divenga azione. Abbiamo discusso; stiamo ancora discutendo in questo congresso: tutti insieme lavoreremo, con tutto l’animo nostro, con spirito solidale e di corresponsabilità, per attuare le decisioni e le indicazioni del congresso.

Lo diciamo a noi stessi. Lo diciamo alle forze democratiche e socialiste, che sentono oggi il ruolo insostituibile del nostro partito ed il bisogno di un dialogo con noi.

Lo diciamo prima di tutto all’avversario di classe, contro cui impegneremo tutto il partito, tutto intero, per la difesa della pace, per la emancipazione dei lavoratori, per la vittoria del socialismo.

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