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Peppino Impastato: trent’anni da vivo, trentaquattro da morto

 

Trentanni da vivo. Trentaquattro da morto. Ormai sono passati molti anni dalla morte di Peppino Impastato eppure, per uomini come lui, una manciata d'anni è più che sufficiente per lasciare un segno indelebile nella coscienza sopita e macchiata di Paese che non potrà mai sentirsi innocente rispetto al crescere e al fiorire delle mafie. La neutralità rispetto a questo tema diventa inesorabilmente indifferenza, complicità, colpa. “La mafia uccide, il silenzio pure”, parole che racchiudono il senso ultimo di una vita come la sua: una vita trascorsa a cento passi dal nemico, circondata dal complice silenzio di amici e parenti. Una vita insopportabile per un uomo libero come lui. 

Chi non vorrebbe un Paese senza santi e senza eroi? Per essere santi occorre esser morti, mentre per essere eroi bisogna esser morti giovani. E noi abbiamo tremendamente bisogno bisogno di persone vive. Sarebbe bello non aver bisogno d'eroi – ed ancor meno di martiri – ma finché la lotta viene lasciata all'iniziativa di pochi e al coraggio di uno sparuto gruppo di resistenti, non esiste altra via che quella del gesto eroico per tentare di cambiare le cose. E il gesto eroico può arrivare da un luogo e un tempo qualunque; può partire da chiunque, anche dal più piccolo e isolato degli esseri umani. Ecco perché poco importa se Peppino nacque in un paese di diecimila anime, ancor meno conta che fosse cresciuto in un contesto a dir poco colluso con l'apparato mafioso; a volte vivere con coraggio, accettando il rischio di morire, è più che sufficiente perché un'idea superi i limiti biologici del corpo e delle mente che l'hanno prodotta, perché superi i confini geografici che le hanno dato i natali e diventi simbolo di lotta universale.

Ma come sarebbe pensare che oggi, a trentaquattro anni dalla morte, la ferita si sia ormai rimarginata e sia facile scegliere da che parte stare. Pensare che la sua morte non sia stata inutile, che abbia messo ogni cosa al suo posto mostrando cos'è giusto e cos'è sbagliato. Eppure non è così ed è ancora più avvilente constatare come la peggiore mancanza di rispetto nei confronti del sacrificio di Peppino Impastato arrivi proprio dalla Chiesa. Il 9 maggio scorso Infatti, alla richiesta di Giovanni Impastato di celebrare una messa in ricordo del fratello, don Pietro D’Aleo – parroco della Ecce Homo – ha archiviato la pratica con un laconico “i tempi non sono maturi” e che una veglia sarebbe stata preferibile. Paura, omertà, complicità sono ancora lì, dove Peppino le aveva lasciate trentaquattro anni fa. Inamovibili. Eterne. 

E allora viene da chiedersi a cosa sia servita la lotta di giovane italiano che si è sacrificato per tutti noi a soli 30 anni? A cosa sono servite le morti di altri eroi italiani finiti nel dimenticatoio? A cosa è servito il dolore di mamme, moglie, fidanzate? E' giusto che vengano offese anni dopo dal politichetto di turno che sostiene che considerare loro degli eroi è banale? La verità è che non persone così non ce le meritiamo. Sono morti per un Paese che non si sveglia. Loro con il loro esempio ci hanno fatto avvicinare di un solo passo alla conquista di un'emancipazione di cui non si intravedono che i vaghi contorni. Gli altri novantanove passi spettano a noi. Le idee di Peppino sono ancora vive, mancano le gambe.

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