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Pensare la città come "bene comune"

È giusto intendere la città quale “bene comune”. L'ho fatto intendere spesso, anche se non utilizzando esattamente questi termini, in molti miei post. Occorre dare però un significato un po’ più concreto a questo virgolettato, è giusto darlo perché i termini sono una base concreta su cui possono poi fondarsi ragionamenti, concetti, giudizi, progetti.

 

Asserire che la città è un bene comune vuol dire darle la valenza di un bene, anziché la valenza di un qualcosa di mercificabile. Il valore che si dà a qualcosa dovrebbe essere la virtù intrinseca che questo qualcosa ha, non ciò che potrebbe essere invece scambiato con altri beni o con la moneta. 

Significa darle il valore di comune, di conseguenza tutto, fuorchè individuale. Significa che si tratta di una totalità di elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente ed occasionalmente possono essere ad appannaggio di uno solo dei membri della comunità, ma che appartengono invece all’insieme della comunità stessa.

Proviamo a chiederci perché si sono formate le città. Ritengo probabile sia successo quale risposta alle esigenze della storia: i singoli individui, le famiglie, le tribù non erano in grado di soddisfare senza associarsi, cooperare, condividere. Nel suo più alto esercizio sociale la città si organizza e si concretizza attorno ai luoghi delle attività e delle funzioni comuni.

Luogo principe della città è sicuramente la piazza, luogo sia di scambio che di ritualità, sia di socializzazione che di raffigurazione, luogo della concentrazione degli edifici e dei servizi pubblici, essenza e simbolo, dunque, della città. 

La valenza della città etica e comune viene tracciata da almeno due presupposti:

a) il ruolo determinante degli spazi pubblici, della loro fruizione aperta, della loro appartenenza pubblica, della loro gestione condivisa.

b) il diritto alla città. Riferito principalmente ai soggetti, ai cittadini, si può dire che la città come bene comune rappresenta lo stesso concetto dal punto di vista dell’oggetto, la città, che al soddisfacimento di quel diritto è ordinato. Pensare e organizzare la città come bene comune è un modo (l'unico modo) di garantire a tutti il diritto alla città. Il diritto alla città però deve essere anche tangibile, in quantità e qualità; si deve avere il diritto di poter vivere sia economicamente che in sostenibilità questo spazio comune.

Non viene difficile cogliere, allo stato attuale delle cose, quanto questi presupposti siano disattesi. Stiamo vivendo città competitive; ogni città deve competere con tutte le altre, deve accrescere le sue “qualità” e le sue “prestazioni”, non tanto a favore dei propri cittadini, ma quanto per attirare meglio delle concorrenti i suoi acquirenti: gli investitori, i turisti, i finanziatori di eventi. I disagi, le povertà, le problematiche quotidiane vengono occultate in nome del decoro cittadino.

Di conseguenza una città che diventa merce, posta sul mercato in concorrenza con altre.

Si è cercato sino a qualche decennio fa di preservare alcuni standard urbanistici dignitosi, si voleva dare ai cittadini il diritto a godere di determinate dotazioni di spazi per verde pubblico e servizi collettivi, basati su parametri ben precisi. Guardandoci intorno oggi capiamo da soli che quelle belle intenzioni non sono state praticate a lungo. Oggi le regioni, almeno a parole, dopo aver dimenticato per anni gli standard, sembrano volerli riprendere e sviluppare completando la previsione quantitativa nella prescrizione di adeguati requisiti di qualità sia dei servizi che dell’organizzazione della città - vedremo quanto seria sia questa intenzione - (io ho ben poca fiducia, ma non sono un grande esperto in materia tecnica) e soprattutto, lo fosse, quanto verrebbe recepita dai vari PGT comunali che vanno a nascere.

La cosa certa è che negli ultimi anni è successo il finimondo, orde di barbari hanno galoppato in una corsa forsennata verso la privatizzazione di tutto ciò che era comune, pubblico. Mercanti di ogni colore politico hanno approvato leggi che consentono di costruire residenze nelle aree destinate ai servizi pubblici, hanno spinto i comuni a vendere, o comunque valorizzare, i loro patrimoni immobiliari. Anche le residenze di proprietà pubblica, destinate ai meno abbienti, vengono cedute in proprietà.

I comuni, spinti dai continui tagli statali e dalla leggerezza politica ed etica dei loro amministratori, si sono venduti agli oneri di urbanizzazione, senza riflettere sulle difficoltà in tema di servizi che ne conseguono. Una volta esauriti questi, si sono votati allo sfruttamento del suolo pubblico, tramite l’espansione recintata di caffè e ristoranti: aumenta il gettito della tassa sul plateatico, diminuisce lo spazio pubblico disponibile per i cittadini.

Va decisamente rivista la politica di gestione urbanistica ed umana della città, va riscritta l’intenzione di città.

Abbiamo citato la piazza, spesso sinonimo di mercato - sempre che per mercato intendiamo quel luogo in cui si scambiano i prodotti del manifatturieri umani - su questo presupposto riconosciamo senza dubbio alcuno che esso è una delle cause fondamentali della nascita della città ed uno dei suoi luoghi eccellenti.

Se invece per mercato si intendono merce e vendita spregiudicate, esso per la città è luogo della morte; esso, abbandonato ogni senso critico ed ogni limite di mercato, non si limita più ad essere la misura del valore di scambio delle merci, ma anche di ogni valore, di ogni azione, di ogni attività dell’uomo e della società. 

Ma “stiamo sul pezzo”, parliamo del mercato sulla città. Amministratori, politici, intellettuali di ogni provenienza partoriscono PGT ed hanno partorito PRG esplicitamente subalterni alle scelte delle società immobiliari; si perché il mercato al quale ci si riferisce quando si parla di governo del territorio non è, in Italia, quello delle imprese, ma quello delle società immobiliari. Non è quello del profitto, ma è quello della rendita. Lo scotto lo si paga tramite segregazione sociale, sperpero di denaro e risorse (pubblici) in genere, disagio delle persone e delle famiglie, svantaggio al sistema produttivo.

Ci hanno letteralmente divorato il territorio prendendosi la libertà di costruire ovunque e comunque, alla faccia delle regole e del buon senso, attraverso una politica urbanistica quantomeno scellerata. Hanno obbligato, dall’alto, attraverso tagli assassini sempre più frequenti e corposi, gli enti locali a sbarazzarsi di suoli ed edifici, modificando le destinazioni d’uso, se serve ad accrescerne il valore di mercato. 

Chi potrebbe, dunque, opporsi a questa logica scellerata?

Volendo, le parti in causa non sarebbero proprio poche … volendo
Toccherebbe sicuramente ai partiti ed ai movimenti politico/sociali, ma pochi sembrano preoccuparsi delle sorti della vita della società attuale e futura. 
Adempissero ai propri doveri le regioni, le province, i comuni dovrebbero occuparsi del bene comune, fatte salve poche eccezioni, nebbia.

Avrebbe da rivoltarsi il popolo, ma questo è in larghissima misura conquistato dall’ideologia dominante propagandata da quel potentissimo strumento di formazione del pensiero che sono i media; poi, spesso, in linea generale, quando esprime la sua protesta la mancanza di risposte da parte della politica lo induce a gettarsi nella sterilità dell’antipolitica. 

Per fortuna la spinta dei movimenti politici provenienti dal basso sta creando la logica delle amministrazioni che in questa materia si votano alla sostenibilità.
Occorre però un’alleanza, un fronte comune di salvezza ambientale e sociale;
Intanto bisogna convincersi che non ci si salva da soli; nessuna amministrazione, nessuna associazione, nessun gruppo, nessun comitato o aggregazione di comitati, di gruppi, di associazioni si possono salvare da soli e possono salvare da soli il territorio dalla devastazione in corso. Occorre abituarsi a lavorare insieme, abbandonando corporativismo ed egoismo.

Lavori in Corso a Cantù sta facendo fiorire, nei propositi e nelle azioni, la sostenibilità economica e sociale, ambientale e mentale. Ci vuole tempo, ma i frutti stanno già, in parte, germogliando, tramite coraggio e determinazione: ma questo non basta. Se una sola città si muove in questo senso, se solo un gruppo di cittadini crede in questo, c’è poco da fare, ma se riusciamo a comunicare la necessità della sostenibilità allora la partita è aperta.

Scrivo queste righe non solo per esprimere il mio pensiero personale, ma anche (e soprattutto) per comunicazione, nell’intesa di riuscir ad aprire gli occhi, ma soprattutto il cuore, al più grande numero di persone possibile.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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