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Patria, una questione di identità

Che senso ha parlare di patria oggi? C’è spazio per il patriottismo a livello culturale e politico?

A 150 anni dall'unità d'Italia, si torna a parlare di patria. Se ne parla in modo del tutto strumentale, per ragioni di circostanza o di parte. Si fa ricorso abbondantemente alla retorica, ma ci si guarda bene dal parlare di patria in senso culturale. Questo, infatti, appare fuori dal politicamente corretto, perché la cultura che conta, quella dominante nei circuiti universitari o mass-mediataci, continua a giudicare tale tema o desueto o provocatorio. 

Certi temi, si sa, sono sensibili. Certe parole sembrano cadute in disuso, ma non smettono di essere dirompenti, perché hanno il potere di ridestare antichi sentimenti ed emozioni, che sembravano consegnati ad un passato lontano.

Il fatto è che l'idea che noi abbiamo di patria per troppo tempo è stata legata, e forse non poteva essere altrimenti, ad una sconfitta bruciante. La nostra è una patria sconfitta, e di questo, per mezzo secolo e più, non si è potuto o dovuto parlare. Non è un caso che solo nel 2004 è stata istituita la giornata del ricordo per commemorare le vittime delle foibe dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia e cioè di quelle terre amputate in seguito ai Trattati di pace del 1947. La storia gronda di sangue e la memoria serba in se stessa ferite che il tempo non riesce a rimarginare.

Si è tentato per molti anni di esorcizzare questo sentimento addebitando la sconfitta al Fascismo, ma, in tutto questo, la patria ha finito per essere identificata con quello e ne ha subito le sorti nel discredito. In tempi più recenti, la patria è stata assimilata al razzismo, quasi che essa comportasse un'esclusione su base etnica, dimenticando che, proprio nelle sue origini, essa aveva significato qualcosa di inclusivo, non di esclusivo, almeno da noi. A maggior ragione, la patria è stata rimossa dalla memoria collettiva, esclusa dai discorsi che contano, sotterrata nei libri di storia. Un grumo di complessi di colpa, di fallimenti, di sensi di inferiorità, spingevano verso questa congiura del silenzio.

Si è passati a parlare, quindi, di Repubblica, di Costituzione, di Democrazia e si sono stabiliti nuove date e nuovi simboli intorno a cui costruire un sentimento di appartenenza: la festa della Repubblica (il 2 giugno), la festa della Liberazione (il 25 aprile), mentre anche l'anniversario della vittoria della prima guerra mondiale (il 4 novembre) veniva relegato da festa nazionale a festa delle forze armate. Non è un caso, quindi, che la riesumazione di un'antica ricorrenza, il 17 marzo, anniversario della proclamazione del Regno d'Italia (1861), abbia suscitato insospettate polemiche.

Ma, a ben guardare, la patria è qualcosa di molto più radicato dello Stato. Lo Stato è un ordinamento giuridico, cui corrisponde un territorio, un'economia ed un circuito di interessi. La patria è qualcosa di legato ad un sentire ed è molto più antica, stratificata e complessa. Ciò in Italia è doppiamente evidente, perché uno Stato italiano è nato solo 150 anni fa, mentre una lingua, una cultura, una fede comune, erano non solo già presenti, ma avevano permeato di sé l'intera cultura occidentale. L'Italia, animatrice dei fermenti spirituali ed artistici nel Medio Evo e poi nel Rinascimento e poi ancora delle grandi creazioni musicali del melodramma del '700 e '800, in vari passaggi epocali era stato cuore dell'Europa, centro irradiatore di civiltà.

L'arte, la letteratura, la cultura avevano, quindi, unificato l'Italia molto prima della politica e molto più in profondità. Ma prima ancora ad interessare le coscienze era arrivata la religione, nella misura in cui aveva permeato dal di dentro le relazioni significative, formative dell'uomo, strutturando la famiglia, i rapporti fra uomini e donne, fra madre e figli, fra generazioni e classi diverse. Si era mostrata attraverso i secoli capace di orientare, di dare senso, prima ancora che dottrina o morale. Aveva unificato il territorio capillarmente attraverso focolai di civiltà come le Abbazie, le Pievi, o attraverso le forme devozionali, pure nei loro limiti emotivi e superstiziosi. Inoltre, in Italia aveva avuto un ruolo più pervasivo che altrove, per la presenza del centro stesso della cristianità.

Patria è, quindi, opinione di sé, percezione di sé ed orgoglio. E questa opinione e questo orgoglio, feriti dalla sconfitta bruciante, dalla fine del ruolo che l'Italia aveva giocato a livello mondiale, all'indomani della seconda guerra mondiale occorreva ricostruire. Lo si fece sostituendo all'amor di patria la fede nella libertà e nella democrazia. Ci si poté, allora, inorgoglire dei traguardi civili raggiunti e, poi, dei successi in campo economico con la trasformazione dell'Italia in grande potenza industriale. Ma, al fondo, nell'opinione di sé, restò come un rimosso, un senso di colpa, una frustrazione profonda. Perciò, di patria non si poteva e doveva parlare.

Oggi, forse, questa rimozione sta venendo meno e se ne può riparlare.

Intanto, in vari modi la globalizzazione rischia di mangiarsi la nostra identità, omologandoci al mercato globale. Un'immigrazione travolgente si protende verso di noi dal sud del mondo, verso cui mostriamo ora sensi di colpa ora paura e diffidenza. Le difese delle piccole patrie si irrigidiscono, di conseguenza, in chiusure ed intolleranze. E questo è senz'altro indice di qualcosa di negativo. Ma è pur vero che, in modo confuso, le diverse componenti di questo affascinante puzzle che è l'Italia reagiscono all'omologazione da globalizzazione. Non capirlo è non capire il nuovo, Perciò, ogni interpretazione del presente che giudicasse in base a pregiudizi ideologici questi conati per certi versi contraddittori, risulterebbe del tutto inadeguata.

Ritrovare appartenenza e identità ha, infatti, un alto valore culturale e morale. Significa ridare un fulcro alla politica, che, altrimenti, si riduce a opportunismi, tatticismi, perseguimento di interessi immediati e deteriori. Significa ridare respiro a ciò che è il tessuto connettivo dello Stato, rivitalizzare il bene comune. Essa, l'appartenenza, non comporta, come ci si ostina a dire, automaticamente rifiuto del diverso etnicamente e culturalmente. Può anche tradursi in questo, ma ciò avviene proprio quando resta come compressa ed incompresa.

In realtà, è vero il contrario, e cioè che non ci può essere apertura al diverso, laddove si è smarrita l'identità, né confronto o dialogo.

Il vuoto dei valori ci fa correre il rischio di allentare i vincoli unitari ed insieme di rinserrare in un rapporto esclusivo ed esclusivista il sentimento di identità. Ridestarlo oggi ci aiuterebbe invece ad essere più chiari a noi stessi e coerenti nell'affrontare le sfide della globalizzazione. Ritrovare un'opinione di sé che si alimenti alla memoria di ciò che siamo si presenta, quindi, come compito inderogabile, al di là della facile retorica, dei complessi di colpa o di inferiorità.

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