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Oltre la crisi: fare bello e bene

E soprattutto continuare a farlo in Italia.

E’ difficile far capire a chi vive in Italia quanto il nostro paese sia amato all’estero. I più informati tra gli stranieri possono scuotere il capo di fronte a certi avvenimenti della nostra politica o della nostra storia recente e lasciarsi andare all’ironia per certi nostri vezzi, ma esiste nel mondo una generale ammirazione per l’Italia, per la sua civiltà e per tutto quel che è italiano. Un’ammirazione, peraltro, completamente giustificata: quando ci mettiamo in testa di fare cose belle, le facciamo.

Ognuno può avere la sua opinione su perché sia così (personalmente penso che crescere in Italia sia in sé un’educazione; che esponga a tali e tanti esempi di bello, anche negli angoli più sperduti del paese, da fare dell’eleganza di certe linee o di certe combinazioni cromatiche una parte di noi), ma neppure i nostri peggiori detrattori possono negare che sia vero e da migliaia di anni. Un esempio? Il Nationalmuseet di Copenaghen espone un tessuto di lana di straordinaria finezza i cui fili disegnano un meraviglioso motivo geometrico; risale all’età del bronzo, è stato ritrovato in una torbiera addosso al corpo mummificato di una donna, e, garantiscono gli studiosi, è stato fatto in Italia.

E’ quasi per natura, dunque, che siamo tra i maggiori produttori mondiali di beni di lusso e non v’è alcuna ragione per cui non possiamo continuare ad esserlo anche in futuro, nonostante la mondializzazione; questa, anzi, rappresenta una straordinaria opportunità per le nostre “grandi firme” che stanno già cominciando a soddisfare i bisogni dei nuovi ricchi asiatici, russi e sudamericani.

Nell’epoca del branding, la politica e lo Stato hanno, in questo campo, un compito solo oltre quello, peraltro fin qui svolto poco e male, di difendere i nostri prodotti più prestigiosi dalle imitazioni; quello di proteggere il marchio più importante che abbiamo, quello rappresentato dal nome stesso del nostro paese, dall’ansia di profitto dei “delocalizzatori”. E’ assurdo che mentre nel mondo c’è una gran voglia d’Italia, questa possa essere appagata da prodotti che in Italia sono stati, nella migliore delle ipotesi, solo progettati. Impedire che per guadagnare qualche euro in più certe nostre aziende trasferiscano all’estero la produzione di oggetti che al pubblico ne costano migliaia è forse impossibile; rendere la vita difficile a quelle che scelgono di farlo, allo Stato è possibilissimo. Impedire loro di spacciare per italiano quello che non lo è più, pure. Non si tratta solo di conservare dei posti di lavoro, ma di mantenere nel nostro paese filiere produttive e “mestieri” che sono la più strategica delle nostre risorse; che hanno rappresentato l’humus che ha permesso a quelle stesse aziende di nascere e crescere.

Detto questo, non si può pensare di produrre esclusivamente articoli per milionari.

Per capire quel che può essere il nostro futuro non dobbiamo far altro che guardare alla Germania e ad uno splendido esempio che arriva dal nostro sud. I tedeschi non hanno affatto rinunciato a produrre né hanno abbandonato i loro settori tradizionali; hanno semplicemente migliorato la qualità già ottima dei loro prodotti e li commercializzano in modo sempre più capillare. E’ esattamente quello che hanno fatto i nostri vignaioli. Non hanno reagito alla crisi dei consumi del mercato italiano smettendo di fare il proprio mestiere, ma facendolo meglio: migliorando la qualità dei propri vini in modo esponenziale, soprattutto nel meridione, tanto da poterli vendere in tutto il mondo a prezzi decuplicati rispetto a quelli che, per i propri ruvidi prodotti, potevano permettersi di chiedere i loro padri. Possiamo continuare a produrre tutto quel che ancora facciamo, insomma, purché ne miglioriamo la qualità; dobbiamo fare in modo, e in parte lo abbiamo già fatto, che italiano non sia solo sinonimo di bello, ma anche di ben fatto; soprattutto di durevole. Tanto ben fatto e durevole da giustificare, anche agli occhi di chi ricco non è, prezzi che ci consentano di pagare i nostri lavoratori perlomeno quanto quelli del resto d’Europa.

Si tratta per certi versi di negare le scelte compiute nel nostro recente passato; per altri di anticipare quelle a cui sarà costretto il mondo di domani. La cultura dell’effimero, della moda fine a se stessa, va rinnegata; non solo è contraria ai nostri valori tradizionali ed è lontana dalle radici della nostra cultura, ma rappresenta uno spreco di risorse ed ha un impatto ambientale insostenibile per il pianeta.

I limiti imposti dalle norme anti-inquinamento hanno costretto i produttori europei a sviluppare motori sempre più puliti ed efficienti dando loro quello che è, oggi, un notevole vantaggio competitivo. In modo del tutto analogo la politica deve rendere costosissimo gettare, liberarsi del “vecchiume”, buttare via. Deve scoraggiare in ogni modo l’usa e getta; al limite proibirlo. Deve stimolare la fabbricazione di cose belle oggi e che restino, in tutti i sensi, belle domani; non di prodotti di largo, ma di lungo consumo.

Cose belle che poi, però, bisogna trovare il modo di vendere in giro per il mondo.

Ancora una volta basta guardare ai nostri vicini per capire quel che dovremmo fare, ma ve ne parlerò in un altro articolo, se vorrete continuare a seguirmi, magari domani.

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