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Occidente e demonizzazione del "diverso"

In un recente articolo pubblicato su Il Foglio, dal titolo emblematico “Il nuovo antisemitismo e le "pietre d'inciampo" antigiudaiche scritte nei testi sacri cristiani. Qualche domanda ancora da porsi”, il vate della neo-teologia critica, Vito Mancuso, fa due affermazioni apparentemente contrastanti.

Dapprima sostiene che l’antigiudaismo (ossia l’ostilità verso la religione ebraica) ha avuto “precise radici neotestamentarie ed ecclesiastiche” che, a loro volta, hanno poi prodotto l’antisemitismo (l’ostilità verso il popolo ebraico in quanto tale). E cita alcuni passi - da Paolo di Tarso ai Vangeli - il cui tenore lascia ben poco spazio a interpretazioni di fantasia; ne basti uno per tutti: «costoro [gli ebrei] hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi, non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini. Essi impediscono a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano sempre di più la misura dei loro peccati! Ma su di loro l'ira è giunta al colmo» (Prima Lettera ai Tessalonicesi, 2,15-16).

Poi però il teologo aggiunge che tutto ciò «non autorizza a trarre la conclusione che il cristianesimo in quanto tale sia intrinsecamente antigiudaico, intollerante e violento». 

E qui cita invece una serie di persone (da Francesco d’Assisi al cardinale Martini) il cui comportamento dimostrerebbe che si può essere cristiani ma, nello stesso tempo, non portatori di antigiudaismo.

La deduzione sarebbe - un po' paradossalmente - che il comportamento di alcuni sarebbe sufficiente a smentire il contenuto dei testi sacri, anche se poi precisa: «se non è il cristianesimo in quanto tale ad aver prodotto l’antisemitismo» non va però mai dimenticato (si noti il rafforzativo) che «in esso vi furono (e vi sono) esponenti il cui antigiudaismo teologico contribuì (e contribuisce) alla diffusione dell’antisemitismo etnico e della sua violenza». In sintesi: «i cristiani che diffusero (e che diffondono) l’antigiudaismo teologico non lo fecero (e non lo fanno) per odio preconcetto verso gli ebrei, bensì perché ritrovano nel loro testo sacro alcuni brani caratterizzati da antigiudaismo teologico».

Insomma, non sarebbe il cristianesimo in sé ad essere tale, ma alcuni "suoi esponenti" che, però, avrebbero attinto quel loro antigiudaismo da alcuni brani proprio del loro testo fondativo.

Brani paragonati a “cellule cancerogene” che hanno poi prodotto l’antisemitismo e il suo tragico corollario di campi di sterminio. Perciò «al cospetto dei milioni di morti che queste idee cancerogene hanno prodotto (...) è necessario praticare un'ecologia della mente cristiana, e prima ancora un'ecologia della Bibbia cristiana».

Circonlocuzioni un po’ tirate per i capelli per dire, in altre parole, che è proprio il cristianesimo in sé - nei suoi testi fondativi - che ha trasmesso nei secoli un antigiudaismo capace poi di trasformarsi in forma laicizzata (a partire però dalla Spagna cattolicissima del XVI secolo) nell’antisemitismo razziale che ha portato a milioni di morti.

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Su una traccia simile si muove anche Donatella Di Cesare ("Più teologia che razza. L'enigma della Shoah", La Lettura) che, in una sintetica biografia del filosofo ebreo Jacon Taubes, pur ricordando come rivendicasse all'ebraismo anche Paolo di Tarso, conclude così il suo articolo: «come Hitler, [Schmitt e Heidegger] erano entrambi "antisemiti cattolici", depositari di una tradizione ecclesiastica che guardava con "odio e invidia" agli ebrei e all'ebraismo. Per capire la Shoah - per evitarla di nuovo nel futuro? - sarebbe stato indispensabile non solo rileggere Paolo di Tarso, in particolare la Lettera ai Romani, ma anche ripensare il rapporto fra ebraismo e cristianesimo».

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E qui devo necessariamente presentare il mio libro (se non lo recensisco io chi volete che lo faccia?) che sarà pubblicato a breve (Edizioni Licosia, 380 pp., 20 euro) con il titolo “Dall’impuro al peccaminoso”.

Nella presentazione di questo lavoro – qui una sintesi - contrariamente alle ambiguità mancusiane, scrivo: «La storia del pensiero occidentale, accanto a un evidente percorso evolutivo, presenta da sempre anche un inquietante lato oscuro e violento. Basti pensare ai tanti orrori di cui è stato protagonista, nel corso dei secoli, fino a quello più emblematico: la persecuzione e lo sterminio del popolo ebraico».

Drammatica tragedia che non pretende solo una comprensibile necessità di "memoria", ma soprattutto una necessità impellente di analisi perché smetta di essere "l'enigma" che tuttora è: «Proprio indagare in particolare sull’antisemitismo diventa necessario allorché si convenga che l’ebraismo ha costituito, per venti secoli, il diverso paradigmatico per un Occidente fondato sul logos greco e sull’idea cristiana di una originale peccaminosità dell’uomo. Cioè su un’antropologia sostanzialmente negativa, portatrice di un fondamentale razzismo».

È qui che, in particolare, va individuata la disumanizzazione del diverso da sé la cui matrice è – sono parole dello psichiatra Massimo Fagioli – “il diverso dalla veglia, coscienza, comportamento, razionalità”.

Nel libro affronto quindi, in profondità, la questione della diversità, fino a individuare in successione gli elementi fondativi dell’antropologia negativa del pensiero cristiano: la colpevolizzazione aprioristica della natura umana, la storica demonizzazione della donna, la condanna dell’irrazionale e del mondo onirico.

Per rispondere ai quesiti impellenti che la Shoah (e più ampiamente la xenofobia, quando non il razzismo più esplicito, che di nuovo oggi riemergono nelle società occidentali) pongono in maniera sempre più impellente - prova ne siano gli articoli che sempre più spesso si riferiscono proprio a questa problematica - va quindi messa in luce la struttura ideologica stessa dell'Occidente e il suo rapporto, profondamente malato, con le culture "altre".

Tema affrontato già trent'anni fa da Zygmunt Bauman in Modernità e Olocausto: «il terrore inespresso che permea il nostro ricordo dell’Olocausto (...) è dovuto al tormentoso sospetto che l’Olocausto potrebbe essere più di un’aberrazione, più di una deviazione da un sentiero di progresso altrimenti diritto, più di un’escrescenza cancerosa sul corpo altrimenti sano della società civilizzata; il sospetto, in breve, che l’Olocausto non sia stato un’antitesi della civiltà moderna e di tutto ciò che (secondo quanto ci piace pensare) essa rappresenta. Noi sospettiamo (anche se ci rifiutiamo di ammetterlo) che l’Olocausto possa semplicemente aver rivelato un diverso volto di quella stessa società moderna della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze, e che queste due facce aderiscano in perfetta armonia al medesimo corpo. Ciò che forse temiamo maggiormente è che ciascuna delle due non possa esistere senza l’altra, come accade per le due facce di una moneta».

Temiamo davvero che le due facce di quella moneta non possano esistere una senza l'altra; e se fosse proprio così la storia è destinata a ripetersi drammaticamente, fosse anche con altre e diverse vittime designate dell'orrore prossimo venturo. Molti infausti segni di questa deriva sono già sotto i nostri occhi ogni giorno. Ma gli scongiuri non bastano, è necessario che si affronti senza infingimenti ed illusioni quell'essenza violenta della tradizione occidentale "della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze".

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