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“Missione fallita”: viaggio nel caos dell’Afghanistan

Quando, nell’ottobre 2001, gli Stati Uniti attaccarono il regime dei Talebani dopo gli attentati dell’11 settembre, l’Afghanistan era un Paese già dilaniato da oltre vent’anni di conflitto, inaugurati dall’invasione sovietica del 1979 e proseguiti con una sequela di conflitti civili. 

Quasi vent’anni di presenza militare occidentale nel Paese non hanno risolto il problema politico afghano, ora aggravato dalla mancanza di spazi di manovra per un’uscita negoziata dal conflitto, e hanno invece danneggiato enormemente la credibilità militare degli Stati Uniti e dei loro alleati. L’Osservatorio dialoga oggi sul tema del conflitto afghano con il professor Gastone Breccia, che sull’argomento ha scritto per “Il Mulino” il saggio “Missione fallita”, in uscita il prossimo 20 febbraio.

Osservatorio Globalizzazione: Professor Breccia, grazie mille per il tempo a noi dedicato. Vogliamo discutere con lei del perenne stato d’incertezza in cui si trova l’Afghanistan collegandoci alle lezioni che la storia di questo Paese avrebbe dovuto impartire ai decisori politici. L’Afghanistan si conferma tomba o pantano degli imperi: quali sono, a suo parere, le determinanti principali di questa sua caratteristica?

Gastone Breccia: Prima di tutto, alcune caratteristiche proprie del suo territorio e della geografia del popolamento: l’Afghanistan è un paese tremendamente difficile da controllare perché fatto di catene montuose, valli isolate e deserti inospitali; e perché la sua popolazione, tutt’altro che omogenea dal punto di vista etnico (i pashtun costituiscono la grande maggioranza nell’est e nel sud del paese, mentre a nord e nord-est dominano i tagichi e a nord-ovest gli uzbechi; gli hazara, unico gruppo di confessione sciita, sono invece maggioritari in alcune aree montuose del centro), è più legata l proprio orizzonte territoriale ristretto che ai destini di una «nazione» unitaria. Poi vi sono elementi culturali importanti: i pashtun, ad esempio, vivono secondo un codice di comportamento basato sul rispetto ferreo di alcune norme fondamentali, e sulla vendetta – anche a distanza di molto tempo – contro i trasgressori. Chi arriva come ospite può contare su un sostegno generoso e disinteressato, ma chi entra a casa loro con la forza può essere altrettanto sicuro della loro tenacissima ostilità.

Osservatorio Globalizzazione: Nonostante le insidie che riserva, l’Afghanistan è da sempre un obiettivo ambito da chi mira a dominare il quadrante dell’Asia Orientale. Quali sono oggigiorno le principali determinanti della rilevanza geopolitica del Paese?

Gastone Breccia: Più che una «tomba di imperi», l’Afghanistan, da sempre, è stato un «crocevia di imperi»: Herat è la porta d’Oriente per chi muove dall’altopiano iranico; la valle del Kabul è il principale passaggio dal subcontinente indiano all’Asia Centrale; dalle steppe a est del Caspio, si scende attraverso l’Afghanistan verso i mari caldi… Oggi oltre che per alcune importanti vie di comunicazione, l’Afghanistan attira l’attenzione delle grandi potenze perché può essere attraversato da oleodotti e gasdotti. È da sempre la sua condanna: gli imperi se lo contendono non per «coltivarlo», per renderlo più ricco, per integrarlo in un sistema economico virtuoso, ma per «attraversarlo»…

Osservatorio Globalizzazione: Lei ha studiato nel dettaglio le tecniche della guerriglia e del conflitto asimmetrico. In un certo senso possiamo dire che l’Afghanistan è il teatro in cui tali tecniche si sono mostrate maggiormente efficaci negli ultimi decenni?

Gastone Breccia: Certamente – dopo il Vietnam – l’Afghanistan si è guadagnato l’attenzione degli analisti militari quale teatro di una lunghissima guerriglia: prima, per un decennio, i mujahidin finanziati dall’Occidente hanno tenuto in scacco i Sovietici e i loro alleati della Repubblica Democratica dell’Afghanistan; poi, dopo la rapida sconfitta subita nell’autunno del 2001, già a partire dal 2003 i talebani (e vari gruppi di insorti islamici loro alleati) sono riusciti a resistere al tentativo occidentale di controllare e pacificare il paese. I motivi sono abbastanza facili da intuire: conoscenza del terreno, appoggio di una parte rilevante della popolazione (nelle aree a maggioranza pashtun), possibilità di ripiegare indisturbati oltre la frontiera pachistana…

Osservatorio Globalizzazione: L’attuale conflitto che divide il Paese, nelle sue varie fasi, rende da oltre quattro decenni l’ipotesi di una pacificazione dell’Afghanistan una vera e propria utopia. Come valuta la situazione sul terreno?

Gastone Breccia: Come dicevo all’inizio, l’Afghanistan è un paese diviso: i pashtun (tra i quali i talebani hanno reclutato la totalità delle proprie milizie) sono legati al Pakistan, mentre uzbechi e tagichi guardano più alle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale e all’Iran. Difficile trovare un equilibrio e una coesione interna sufficienti a creare uno sforzo comune verso la pace e il progresso… L’intervento occidentale, purtroppo, non ha fatto che inasprire tensioni interne, convogliando una quantità enorme di denaro nelle mani di vecchi warlords e capi-banda locali, o comunque di personaggi interessati a tutto tranne che al perseguimento del bene comune.

Osservatorio Globalizzazione: Una recente inchiesta del Washington Post sui diciotto anni di guerra seguiti all’intervento statunitense in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001 ha rivelato il pressapochismo, l’impreparazione e le menzogne di numerosi alti esponenti politici e militari in relazione al dossier afghano. Forse sarebbe bastato studiare le poche centinaia di pagine di opere come “Il Grande Gioco” di Peter Hopkirk per iniziare a capire che quello afghano era un teatro infido. Come hanno potuto gli Stati Uniti cader preda di un pressapochismo tanto deleterio?

Gastone Breccia: Gli americani, anche ai massimi livelli, non sono certo famosi per l’attenzione allo studio del passato. È la tracotanza tipica di chi si sente superiore ai propri avversari, ma è anche una caratteristica culturale statunitense… Nel caso della long war afgana direi però che non si è trattato soltanto di ignoranza, ma dell’oggettiva difficoltà nel gestire una situazione confusa dal punto di vista strategico. Cosa si voleva ottenere, dopo l’iniziale vittoria del 2001? Perché restare nel paese? Come affrontare un’operazione di nation-building in una delle realtà, lo abbiamo detto, più difficili dal punto di vista geografico, demografico, culturale e religioso? In mancanza di chiare direttive dal loro governo, i militari americani hanno cercato spesso di arrangiarsi cercando di ottenere qualche risultato sul campo – pacificare un distretto per volta, controllare le città e le vie di comunicazione – e di ignorare, o meglio di nascondere, tutto quello che non andava.

Osservatorio Globalizzazione: L’arco di tensione che si estende dai deserti del Medio Oriente ai monti del Pamir in Afghanistan è una dorsale estremamente contesa dai principali attori politici, tra cui molti Stati locali in rapida ascesa. Possiamo dire che una delle sfortune dell’Afghanistan sia sempre stata la presenza di vicini scomodi?

Gastone Breccia: Certamente sì, come ho già notato a proposito dell’Afghanistan «crocevia di imperi». Posso aggiungere: il vicino più «scomodo» di tutti è il Pakistan, che purtroppo ha tutto l’interesse a mantenere il paese in una situazione di instabilità e di insicurezza. I talebani – di etnìa pashtun, come dicevo, come buona parte degli abitanti delle regioni occidentali del Pakistan – possono essere considerati dal governo di Islamabad come alleati fedeli: paradossalmente, ancora più utili finché non ci sarà un governo solido e autorevole a Kabul. In prospettiva, l’Afghanistan dovrebbe appoggiarsi di più a «vicini potenti ma lontani», se mi passate il gioco di parole, come l’India o la Cina, che potrebbero essere più interessate a rendere il paese stabile e sicuro. E la Cina, in effetti, si sta già muovendo…

Osservatorio Globalizzazione: In conclusione, vorremmo chiederle una valutazione dell’impegno militare in Afghanistan. Quali sono a suo parere i principali risultati ottenuti nella partecipazione alle missioni internazionali nel Paese? Quali, di converso, gli ostacoli operativi e i rischi più significativi?

Gastone Breccia: I risultati sono assai scarsi. Si parla di cinque trilioni (5.000 miliardi) di dollari spesi dal 2001 per non rendere più sicuro il paese: l’esercito afgano (l’ANA, o Afghan National Army) non è ancora in grado di tenere il campo senza sostegno esterno; la polizia è incapace di garantire la sicurezza; la corruzione è endemica, e priva di fatto il paese di qualsiasi speranza di crescita; la democrazia… a giudicare dal clamoroso insuccesso delle ultime elezioni presidenziali, che si sono tenute il 28 settembre e non hanno ancora prodotto un risultato attendibile, la democrazia in Afghanistan non esiste, nonostante tutte le affermazioni in contrario. È stato versato molto sangue invano: il successo militare iniziale – la sconfitta dei talebani, la fuga di Osama bin Laden e del mullah Omar – non è stato trasformato in un successo politico duraturo, soprattutto per l’incapacità di trovare un interlocutore valido. Si è pensato che fosse sufficiente inondare il paese di denaro, ma senza comprenderne le particolarissime condizioni sociali, economiche e culturali anche questa «generosità» si è rivelata controproducente. Oggi, di fronte al fallimento della missione occidentale – non a caso il mio saggio si intitola proprio «Missione fallita» – il rischio principale per gli afgani è il riaccendersi di una nuova fase della guerra civile, mai del tutto cessata; mentre per noi, per l’Occidente, è una clamorosa perdita di prestigio e credibilità a livello globale.

Foto di Amber Clay da Pixabay 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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