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Minacce, diffamazione, oblio, web. Come trovare una quadra

Nelle scorse settimane, dopo le minacce arrivate per email al Presidente della Camera Laura Boldrini e all’intervista a Repubblica che è seguita, sembrava che stesse per arrivare una legge speciale per i reati che avvengono via web. Qualche giorno dopo Boldrini ha affermato di essere stata fraintesa – tra l’altro, quand’è che si riprenderà la buona abitudine di dire “non sono stato capace a spiegarmi bene”? Perché la colpa dev’essere sempre di chi ascolta? – ma intanto la discussione c’è stata eccome, e io che ho imparato dal buonanima di Giulio Andreotti che a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca spesso non vorrei che tutto questo fosse un ballon d’essai per fare davvero accettare all’opinione pubblica l’idea che la Rete debba essere strettamente regolamentata: il perché dell’avverbio lo spiego dopo. Potete leggere un’analisi molto articolata di Fabio Chiusi sui pericoli insiti in questa deriva; io preferisco cambiare punto di vista.

Innanzitutto, spiego il motivo dello “strettamente”: chiunque sa un minimo di cose della rete sa anche che non è affatto vero che ci sia l’anarchia. Come capita sempre per il diritto italiano e non solo, le leggi si applicano esattamente allo stesso modo, per analogia. Diffamare in rete equivale a diffamare nella vita reale, ammesso che quella che si fa per strada sia più reale di quella che avviene davanti a una tastiera. Certo, si possono fare leggi ad hoc: in fin dei conti la diffamazione a mezzo stampa è più grave di una “diffamazione semplice”. Ma forse prima di fare queste leggi speciali è meglio provare ad applicare le leggi che ci sono: e ricordiamoci che già ora è molto più difficile restare davvero anonimi in rete che fuori. Tornando alle minacce di morte, non mi pare sia ancora fattibile ferire o uccidere qualcuno sul web, tanto per mettere le cose nella giusta prospettiva. Detto questo, sono il primo ad affermare che l’analogia è appunto solo un’analogia, e non può essere applicata in maniera becera: questo per tutta una serie di ragioni che provo a illustrare con un esempio fittizio, confidando nella bontà degli esperti legali che sorvoleranno sui miei strafalcioni.

Nel 2003 nelle pagine locali della Stampa apparve un articoletto in cui si segnalava che un impiegato alla ex-Snia, tale Porfirio Villarosa, era stato incriminato per minacce a sfondo sessuale. Ai tempi il mio blog era relativamente giovane e languiva; inoltre Porfirio mi aveva anche rubato una ragazza qualche anno prima. Così pensai bene di scrivere un post di fuoco, senza prendere una posizione diretta ma raccontando di come secondo il GIP una persona che sotto l’apparenza tranquilla compiva poi azioni così riprovevoli; terminavo il post con la solita frase fatta “ma sicuramente la giustizia stabilirà come si sono svolti i fatti”. Nel 2006, coi soliti tempi della giustizia italiana, Villarosa venne poi prosciolto in primo grado per non aver commesso il fatto: si scoprì infatti che l’accusatrice si era inventata tutto. La situazione era così chiara che il pubblico ministero non ricorse neppure in appello e la disavventura giudiziaria del Villarosa terminò lì. Un altro articoletto apparve sulla Stampa: io lo lessi e immediatamente scrissi un post al riguardo sul mio blog, perché per quanto Porfirio mi stesse sulle palle era giusto comunicare ai miei ventun lettori la sua assoluzione dopo che avevo parlato della sua incriminazione. Arriviamo al 2012: Villarosa si candida alle elezioni comunali per la lista “Alleanza a 360°”, e i sondaggi lo danno incredibilmente vincente. L’opposizione corse ai ripari, cercando qualche modo per azzopparlo virtualmente: trovarono il mio post e iniziarono a fare una campagna citandolo per ogni dove. Per come funziona Google, quel post acquistò importanza, tanto che quando qualcuno faceva una ricerca su Porfirio Villarosa si trovava in prima posizione. Andò a finire che Villarosa perse le elezioni, e mi citò a giudizio per danni materiali: non per diffamazione, perché tecnicamente non avevo scritto nulla di diffamante, ma per aver diffuso notizie non corrette.

A prima vista, la situazione mia e della Stampa sembrerebbero identiche: entrambi abbiamo scritto una notizia vera (l’incriminazione di Villarosa) e poi dato la smentita (l’assoluzione) con lo stesso risalto. Però una differenza c’è eccome. Gli articoli del quotidiano sono ricercabili in rete ma non automaticamente: uno deve esplicitamente andare sull’archivio storico e fare la ricerca. Inoltre i miei due post non hanno in effetti la stessa visibilità, perché a causa dell’algoritmo di Google quello molto linkato è considerato più importante. Ci sono in pratica quattro caratteristiche da tenere presente per valutare l’importanza di una notizia, e questo vale sia per il web che per il mondo esterno anche se la loro prima definizione è stata fatta per la rete (vedi questa tesi). Abbiamo la persistenza, cioè quanto tempo la notizia rimane visibile: per un quotidiano cartaceo una giornata, per un blog di per sé per sempre. Poi c’è la replicabilità, cioè la facilità di ricopiare il testo: un articolo di giornale può essere fotocopiato, ma sicuramente il copincolla è molto più semplice. Abbiamo ancora la scalabilità, cioè la diffusione della notizia originale: in questo caso è il quotidiano ad averne di più, perché un povero piccolo blog, anche se in linea teorica è visibile a tutto il mondo, in pratica viene letto da poche decine di persone. Infine la ricercabilità, come è facile trovare il testo con una ricerca in rete; come abbiamo visto in questo caso il quotidiano ha ricercabilità nulla per questo tipo di notizie, mentre quella del blog parte da un valore basso ma può crescere.

Capite insomma che non si possono in effetti trasporre direttamente le regole per la stampa ai blog, anche partendo dal presupposto falso che un blog sia equiparabile alla stampa. Tecnicamente la rettifica è stata data con lo stesso risalto; in pratica il risalto non c’è. Che fare allora? Bisognerebbe studiare seriamente la cosa, e mettere insieme esperti del campo legale e di quello informatico per capire cosa può essere l’equivalente logico della rettifica cartacea. Una possibilità può essere richiedere che il primo dei due post sia emendato con un aggiornamento che indichi che la notizia si è poi rivelata falsa: o magari può essere sufficiente avere un trackback, cioè un collegamento automatico al secondo post che appare quando si visualizza il primo. Altra cosa che non si può probabilmente pretendere è il termine tassativo delle 48 ore a partire dalla richiesta di rettifica: in fin dei conti nessuno è costretto a essere sempre sul pezzo. Come però dicevo, tutte queste sono solo possibilità che dovrebbero essere discusse in maniera un po’ diversa che mediante articoli sui quotidiani!

Altro punto dolente è quello sul diritto all’oblio, che cioè dopo un certo periodo di tempo notizie non certo positive nei confronti di qualcuno debbano venire eliminate. Si sente spesso parlare di diritto all’oblio nel caso di politici e faccendieri che vogliono rifarsi una verginità, ma il problema è molto più ampio. Nella mia dodicennale carriera di blogger mi sono capitate tre richieste di questo tipo; tutte molto educate – buon per loro, perché altrimenti li avrei tranquillamente mandati a stendere – da persone che solo dopo alcuni anni si sono accorti che anche se non faccio SEO per mestiere sono comunque in grado di far salire abbastanza un certo tipo di post, e di arrecare danno all’immagine di una piccola azienda… azienda che mi aveva fatto incazzare. La mia risposta in questi casi è stata molto personale: ho modificato i post in modo che non fossero più ricercabili da Google con le parole chiave incriminate e che i vecchi collegamenti non funzionassero più, ma non li ho affatto cancellati. La mia è una scelta precisa: posso essere buono e impedire la ricercabilità e in parte la persistenza, ma il mio blog serve principalmente a me per ricordare cosa è successo in questi anni, e non ho nessuna intenzione di togliere informazioni. A parte il costo non banale di questa operazione – ma si sa che le cose io le faccio per principio – è questo il modo migliore per operare? Non lo so. So solo che anche in questo caso un diritto all’oblio che nasca da una sollevazione popolare si trasformerebbe immediatamente in una censura, e non vedo perché gli storici del ventiduesimo secolo non possano avere a disposizione del materiale. Ma capisco anche che se uno a vent’anni è così imbecille da postare su Facebook foto compromettenti e poi a trent’anni scopre che chi avrebbe potuto dargli un lavoro non lo fa per aver visto quelle foto potrebbe anche arrabbiarsi un po’, soprattutto se ha messo la testa a posto. Ancora una volta, le leggi si dovrebbero fare per rendere equivalenti i due mondi: ma sarà possibile? Purtroppo ne dubito.

Di .mau.

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