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Migranti e migrazioni: miti e chiacchiere

Nel presentare l’articolo su La guerra in Libia e “l’invasione” dei terroristi (seguito poi dagli utili dati contenuti in Le cause della crisi della migrazione ) avevo segnalato un numero di LIMES su questi temi, molto interessante, anche se con contraddizioni interne in parte dovute alla scelta di garantire un certo pluralismo. Ad esempio, ci sono articoli di esponenti del governo attuale o di quelli precedenti su cui è lecito esprimere seri dubbi.

Penso ad esempio a Mario Raffaelli, che insieme a Francesco Forte è stato responsabile per anni della politica italiana nel Corno d’Africa e in particolare in Somalia, con gli esiti ben noti: la dissoluzione dello Stato, una guerra civile di tutti contro tutti, all’interno della quale sono emerse pericolose formazioni jihadiste. Oggi è presidente di un’associazione umanitaria (l’ANREF, che si definisce “la più grande organizzazione sanitaria africana che opera nel continente”), e dice anche alcune cose che sarebbero astrattamente giuste (vedi ad esempio qui), se non fossero state contraddette dal concreto intervento dell’Italia nella regione, in epoca craxiana e anche successivamente, proprio quando Raffaelli era sottosegretario agli Esteri con delega sull’Africa.

Raffaelli caldeggia apertamente la versione più seria della parola d’ordine “aiutiamoli a casa loro”, ma senza convincere nessuno, perché attribuisce tutta la responsabilità di un sicuro fallimento alla Commissione europea, che avrebbe stravolto il migration compact presentato dal governo Renzi, che “sia pure con limiti e qualche contraddizione, ha avuto il pregio di porre la questione delle migrazioni” nel quadro di una “strategia complessiva e coerente”.

La comunicazione della Commissione europea che ne è derivata non ha certo rappresentato un passo avanti. Manca soprattutto la consapevolezza della necessità di un nuovo approccio politico: non si possono attuare decisioni nuove, giuste e coraggiose, con governi corrotti e privi di legittimazione.

Raffaelli si riferisce all’Italia? No, e lo si capisce dalla precisazione successiva:

Non si può mettere in campo una strategia di cooperazione con i paesi terzi se non si affronta seriamente il tema del rispetto dei diritti civili. Non si può fare la guerra al terrorismo confondendo i Fratelli Musulmani con un’orda di terroristi assetati di sangue. Non si può “aiutarli a casa loro” se non si rafforzano le società civili e non si incoraggia lo sviluppo di istituzioni più credibili e trasparenti.

Anche noi veramente avremmo bisogno di “istituzioni più credibili”. Ma comunque non c’è fretta, dato che Raffaelli conclude che “bisogna essere consapevoli che problemi lasciati aggravarsi per decenni richiederanno altrettanto tempo per essere risolti”. E se la cava con un bel proverbio africano, invece di affrontare alla radice l’origine del problema: l’impegno di tutti i paesi colonialisti a distruggere in breve tempo i progetti che avevano caratterizzato la prima fase della decolonizzazione. Ricordiamo l’episodio chiave, che ha avuto ripercussioni terribili sui gruppi dirigenti di tutti gli altri paesi africani: la vicenda del Congo ex belga, riconquistato in pochi anni da mercenari sotto l’egida dell’ONU e con la partecipazione non solo del Belgio (e della Francia, che ne stava ereditando anche militarmente le ex colonie) ma degli Stati Uniti, del Sudafrica razzista, e di molti altri paesi europei, compresa l’Italia dei “martiri di Kindu”. Una “riconquista” invano contrastata dal generoso tentativo cubano di sostenere i combattenti lumumbisti con una piccola spedizione guidata da Ernesto Che Guevara…

Per battere le pseudo teorie razziste che alimentano il panico di fronte ai diversi con la pelle scura (che non è diffuso solo tra i barbari seguaci di Salvini ma anche in altri settori politici), non basta ricordare che “anche i nostri nonni sono stati migranti”, ma bisogna spiegare l’origine della distruzione dell’Africa. Partendo dalla tratta degli schiavi, che ha dissanguato il continente privandolo delle energie migliori e più giovani, in misura tale che solo tra il 2030 e il 2050 si prevede che l’Africa tornerà ad avere il 14-15% della popolazione mondiale che aveva prima del grande saccheggio di esseri umani, e della successiva facile e feroce colonizzazione.

Ma veniamo alle proposte per affrontare la nuova ondata migratoria. L’editoriale di presentazione di questo numero di Limes parte dal dato del calo complessivo della popolazione italiana, accompagnato ovviamente dal suo invecchiamento.

Seguendo le tendenze attuali, compresa un’immigrazione netta intorno alle 100.000 unità annue, nel 2050 ci ridurremmo a circa 57 milioni. Senza immigrazione – ipotesi di puro tavolino – perderemmo 8 milioni, calando a 52 milioni.

LIMES ironizza sulla cecità della nostra «classe dirigente» che si nasconde il problema, come se fosse sotto effetto di sostanze stupefacenti. Ma la rivista non fa grandi passi in avanti, rispetto alla denuncia di tutti i governi italiani che, a prescindere dal colore, procedono “per inerzia, aggiustamenti, reazione retorica alle emergenze”. Una passività che, esimendoci “dal disegnare una strategia di sviluppo fondata sulla gestione sistemica dei flussi migratori, sull’integrazione di una quota determinante degli immigrati – soprattutto delle seconde, presto terze generazioni – e sulla correlativa necessità di stabilire relazioni speciali con le terre di origine dei nuovi italiani”, prepara scenari terrificanti. Dal momento che “non possiamo invertire a comando il movimento naturale della popolazione, nemmeno se fossimo una dittatura”, lo sbocco di questa inerzia sarebbe apocalittico.

Altrimenti la disputa sull’identità italiana sarà risolta nello scontro di piazza tra estremisti xenofobi militarizzati e bande di immigrati organizzate su fondo etnico-religioso, fra loro fieramente rivali. Con la maggioranza degli autoctoni a tifare per i primi, visto che l’82% degli italiani si dichiara ostile agli zingari (record europeo), il 69% ai musulmani (ci battono solo gli ungheresi, al 72%), a cui si aggiunge lo zoccolo duro antiebraico (24%), sintomo classico di intolleranza per il «diverso».

“Limes” prima di tutto cerca di smontare la retorica dell’«invasione» spiegando che il numero di migranti sbarcati nei primi sette mesi del 2016 è analogo a quello del 2015 (84.052 contro 84.026), ma non riesce ad arginare il panico: il problema è che da paese di transito siamo diventati un “paese obiettivo”, in seguito alla chiusura feroce e cinica delle frontiere dei paesi a nord dell’Italia, mentre la pressione da sud è inarrestabile, perché strutturale.

Un pezzo forte di questo numero è un’intervista all’attuale viceministro degli Esteri, Mario Giro, ricca di belle proposte e di (infondato) ottimismo. Giro, nel governo è formalmente in quota per Scelta Civica (l’effimera formazione che fa capo a Mario Monti) ma in realtà rappresenta soprattutto la influente comunità di Sant’Egidio che in molti paesi non solo africani ha un ruolo parallelo a quello della Farnesina. Egli è convinto che “L’Africa è il problema, ma è anche la soluzione”. Cioè sarebbe il nostro “partner dello sviluppo nei prossimi decenni”, soprattutto perché “è l’ultimo continente a disporre di terre arabili in abbondanza”.

Per questo Mario Giro pensa che l’Africa, “attraverso l’agricoltura e l’agroindustria, possa finalmente entrare nella globalizzazione, così come l’Asia vi è entrata con l’industria manifatturiera”. A quali condizioni vi sia entrata, lo tace pudicamente, ma ce lo ricordano frequentemente le catastrofi e i roghi che hanno accompagnato l’«entrata nella globalizzazione» di paesi come il Bangladesh.

Ogni tanto il viceministro si lancia in previsioni ottimistiche: l’Africa è un continente giovane (quasi il 70% della popolazione ha meno di trent’anni), ed è semivuoto: ci sono “paesi immensi con poche decine di milioni di abitanti, fatta eccezione per la Nigeria”. Pertanto, “in condizioni di sviluppo adeguate, è lecito aspettarsi non solo che la gente resti, ma addirittura che la diaspora torni nei paesi di origine”. A chi dubita, assicura che anzi “una nuova «corsa all’Africa» c’è stata”. Ma deve precisare poi che “ha coinvolto non tanto gli africani, quanto soprattutto cinesi”, tanto è vero che “i cinesi residenti in Africa sono più di un milione”. A fare cosa, e per conto di chi, e con quali benefici per gli africani Giro non ce lo dice. Ci dice invece che in seguito alla crisi economica dal 2008 molti spagnoli e portoghesi (ma anche turchi e indiani) sono andati a lavorare nei paesi africani che crescono di più. Ma questa è tutt’altra cosa.

Lucio Caracciolo e Fabrizio Maronta, che intervistano Giro per la redazione di Limes, non possono rinunciare a fargli una domanda imbarazzante: “Il ritorno in Africa su vasta scala è però uno scenario a medio-lungo termine. Nell’immediato?” La risposta del viceministro parte da una costatazione ovvia, ma è molto vaga nella proposta:

Per ora resta un flusso migratorio verso di noi, che durerà. È un flusso dovuto non tanto alle situazioni di crisi e instabilità, che pure ci sono – penso al Corno d’Africa e in particolare alla Somalia, o al Nord-Est della Nigeria – quanto soprattutto al fatto che i giovani africani sono spinti ad emigrare dalla ricerca di migliori opportunità. Per questo i paesi europei e quelli africani dovrebbero stringere molti più legami.

Purtroppo di “legami”, veri cappi al collo ereditati dal colonialismo e consolidati dal neocolonialismo, tra paesi europei e africani ce ne sono già moltissimi. E non sembra plausibile che, come pensa Giro, “ciò beneficerebbe le rispettive economie”. C’è poco da fare. Un’esperienza secolare ci dice che se beneficiano quelle dei paesi imperialisti europei, non possono beneficiare quelle africane. Il viceministro Giro condisce il tutto con una bella immagine: parla di “circolarità dei flussi migratori”, e spiega che “le migrazioni sono gestibili se il grosso dei giovani africani che vengono da noi lo fa per formarsi nelle nostre università, per poi tornare nei paesi di origine e mettere a frutto il proprio potenziale”. Ma dove vive Giro? Dice che “lo fanno”, ma dovrebbe dire che questo è il loro sogno, e la realtà è ben diversa. Per avvalorare la sua ipotesi dice che “oggi ci sono più medici malawiani a Manchester che in Malawi”, ma non dice che sono stati chiamati in Europa per abbassare gli stipendi e allungare gli orari di chi lavora negli ospedali, e non pensa in che stato sono le nostre università per i tagli spietati alla ricerca. E non pensa ai dati agghiaccianti dei risultati concreti della tanto decantata ospitalità tedesca: le trenta grandi aziende tedesche della Dax (che hanno in totale tre milioni e mezzo di dipendenti) a giugno avevano assunto in pianta stabile solo 54 (cinquantaquattro!) rifugiati.

Che si tratti di chimere, lo si capisce dall’unico esempio concreto che fa il viceministro: la cooperazione italiana (compresa la comunità di Sant’Egidio) ha creato nel Senegal in tutto 40 (quaranta) piccole e medie imprese per 2.800 posti di lavoro, aperte anche alla diaspora senegalese in Italia. Che cosa rappresenta rispetto ai problemi di quel paese? Forse una soluzione per 2.800 persone (o forse solo o soprattutto per i 40 imprenditori…) che rappresentano ben poco rispetto a una comunità senegalese immigrata in Italia vicina alle 100.000 persone. Il viceministro Giro inoltre si lascia scappare l’ammissione che queste attività economiche in Senegal vanno “anche a beneficio delle nostre imprese…”

Occorre un totale capovolgimento dell’opinione pubblica in Italia (e in tutta l’Europa) per poter avviare seriamente e con una dimensione percepibile i progetti che ora sembrano sogni: come finanziare la formazione di tecnici, medici, esperti di agricoltura nelle nostre università all’interno di programmi che si concludano con un ritorno nel loro paese. Quelli che ce l’hanno ancora un paese e uno Stato, ovviamente (a quale “casa” possono tornare gli esuli siriani, libici, somali, afghani, yemeniti, iracheni, ecc.?).

Bisogna far capire agli italiani che misure di questo genere non sono un atto di generosità spontanea, ma una parziale restituzione di quanto è stato depredato in epoca coloniale e postcoloniale, con la complicità dei governi corrotti collocati in ciascun paese. E comunque sono l’unica possibilità di invertire i flussi sia pure in tempi lunghi e lunghissimi.

L’impossibilità di tempi brevi è legata a un dato da cui non si può prescindere: le rimesse dei migranti che si sono bene o male installati in Europa (ma lo stesso vale per gli Stati Uniti rispetto all’America Latina) valgono per ogni governo locale molto di più degli “aiuti” ricevuti. Tanto più che la scelta di mantenere in piedi in ciascun paese una clientela di vassalli significa che la maggior parte degli aiuti internazionali vengono accaparrati dai governanti corrotti, oltre a mantenere un alto livello di vita all’esercito dei professionisti della “cooperazione internazionale”. È dunque impensabile che un qualsiasi governo africano degno di questo nome si impegni a bloccare le partenze verso l’Europa, nel quadro di quello scambio tra aiuti e controllo dei flussi che era al centro del progetto di migration compact (trasformato poi inmigration framework dalla Commissione europea, che al di là delle chiacchiere nella sostanza è stata affascinata dal modello dell’indecente accordo della Merkel con Erdogan, sul cui futuro è invece più che lecito dubitare).

Ma allora non c’è niente da fare? Beh, cominciamo a risparmiare le chiacchiere fumose che non convincono nessuno e a identificare piuttosto le cose da non fare: per esempio smettiamo di intervenire (con flotte, aerei, droni, o squadre di 007) in parecchie parti del mondo ben lontane da noi e a cui non abbiamo nulla di decente da proporre. A parte le armi. Armi usate direttamente o vendute a regimi assassini e retrogradi, come ha documentato ancora una volta puntualmente Giorgio Beretta (http://www.unimondo.org/Notizie/Italia-nuove-spedizioni-di-bombe-ai-sauditi-per-bombardare-lo-Yemen-158381). Nel silenzio generale anche di quel che resta della sinistra (a.m.)

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P.S. Il dibattito sui giornali italiani si appassiona in questi giorni alla questione del divieto del cosiddetto burkini (un costume da bagno che più o meno ricorda quello imposto nell’età vittoriana in tutta Europa). La questione è nata in quella Francia che nell’immaginario italiano appare quella della Bastiglia, ma è anche quella della Vandea, del processo a Dreyfus, dei massacri di algerini a Parigi, e che comunque ha tra i paesi europei una delle maggiori responsabilità nello sfacelo dell’Africa post coloniale. La Francia che proteggeva il re cannibale Jean Bedel Bokassa ora vuole decidere cosa si deve indossare sulle spiagge. Una stupida provocazione, ma su questo i dibattiti si accendono appassionatamente anche in Italia, non sulle cause profonde della disperazione di quelle donne e quegli uomini che non vedono altra alternativa che il fondamentalismo islamico (fino a pochi decenni fa ovunque marginalissimo) dopo la sconfitta e la distruzione delle élites nazionaliste che avevano guidato le lotte anticoloniali. (a.m.)

Questo articolo è stato pubblicato qui

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