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Meno inflazione e crescita, più debito? Non è detto

Per l'Italia, si prevede nel 2024 una flessione di crescita reale e inflazione. Ma questo non vuol necessariamente dire che il Pil nominale crescerà di meno. 

La cosiddetta Previsione d’inverno della Commissione europea, su crescita e inflazione dei paesi della Ue, ha confermato quello che si sapeva da mesi, e cioè che le stime di recupero dell’economia tedesca erano scritte sull’acqua, visto che il paese non sta attraversando una crisi congiunturale bensì strutturale, legata al suo modello economico.

LA GELATA TEDESCA SULLA UE

Di conseguenza, il Pil tedesco nel 2024 è ora visto crescere di solo lo 0,3 per cento, contro il più 0,8 per cento della previsione d’autunno di tre mesi addietro. e addirittura il +1,6 per cento che lo scorso autunno il governo tedesco aveva ipotizzato. Ciò fatalmente zavorra la crescita di Ue ed Eurozona, con la seconda che scala marcia da più 1,2 per cento a più 0,8 per cento, ed è attesa a un rimbalzo il prossimo anno a più 1,5 per cento. Vedremo, visto che il prossimo anno dovrebbe essere attivo il nuovo patto di stabilità, per effetto del quale molti paesi dovranno assumere una posizione fiscale restrittiva. Geopolitica permettendo.

L’Italia è accreditata di una crescita per quest’anno dello 0,7 per cento, all’incirca in linea con le stime di consenso e lievemente inferiore alla media dell’Eurozona, posta a una crescita dello 0,8 per cento. Per contro, il nostro paese può contare su una previsione di maggiore moderazione dell’inflazione, vista quest’anno al 2 per cento e in lieve ripresa il prossimo, a 2,3 per cento.

Il fatto che la crescita italiana sia inferiore a quanto scritto nei documenti alla base della nostra legge di bilancio e delle previsioni pluriennali contenute nel Documento di economia e finanza e nella relativa nota di aggiornamento, fa sorgere immediate alcune domande. Che accadrà ai conti pubblici? Avremo necessità di una manovra correttiva? E che valore assumerà il rapporto debito-Pil?

Alla prima domanda si può rispondere che probabilmente non ci sarà bisogno, con questo scenario, di una correzione dei conti in corso d’anno. Per un motivo banale: a giugno ci sono le elezioni per il parlamento europeo, a cui farà seguito il negoziato per la creazione della nuova Commissione. Quindi tutto è rimandato a fine anno, alla determinazione della cosiddetta “traiettoria tecnica” del rapporto d’indebitamento, che la nuova Commissione sottoporrà a ciascun paese, e della quantificazione dell’ampiezza della correzione per tornare entro un triennio a un rapporto deficit-Pil inferiore al 3 per cento.

Al limite, se in corso d’anno dovesse verificarsi un ulteriore deterioramento, il relativo onere si scaricherà sulla procedura del cosiddetto “braccio preventivo”, a fine anno. Sarà una legge di bilancio non facile ma questa non era una profezia difficile.

OCCHIO AL DEFLATORE DELLE IMPORTAZIONI

Piuttosto, l’attenzione si sta focalizzando sul rapporto debito-Pil. Come noto, per il famoso effetto “palla di neve”, se la crescita del Pil nominale è inferiore al costo medio del debito pubblico, l’indebitamento si autoalimenta, e viceversa. Il Pil reale crescerà meno di quanto previsto, e questo è acclarato. Ma che si può dire di quello nominale? Alcuni osservano che, poiché l’inflazione italiana scende, allora anche la crescita del Pil nominale dovrebbe frenare, e non poco, mettendoci a rischio della palla di neve avversa.

Questa interpretazione non è corretta. Il Pil nominale non è la somma di quello reale e dell’inflazione espressa dai prezzi al consumo, bensì del cosiddetto deflatore del Pil. Un numero che incorpora anche il deflatore dei prezzi alle importazioni, con segno negativo. Ne avevo scritto qui, commentando la semplificazione secondo cui l’inflazione aiuterebbe i grandi debitori come l’Italia.

Cosa semplicemente non vera, sia perché l’Italia deve continuare a emettere nuovo debito, che incorpora i maggiori tassi d’interesse e il relativo premio al rischio, sia perché occorre introdurre il concetto di deflatore del Pil, che rappresenta la misura del livello dei prezzi di tutti i nuovi beni finali prodotti a livello domestico in un’economia in un anno. Il punto chiave è “a livello domestico”.

L’aumento dei prezzi delle importazioni, come detto, ha segno negativo sul deflatore del Pil. Quindi, se l’aumento dei prezzi delle importazioni supera quello dei beni prodotti a livello domestico, il deflatore del Pil cresce meno, e di conseguenza anche il Pil nominale cresce meno. Il che vuol dire che il deflatore del Pil è concetto che non coincide con quello dell’inflazione al consumo, perché quest’ultima include anche i beni importati.

Ma attenzione: se i prezzi delle importazioni calano, come sta accadendo per la voce energia, e dato che il deflatore delle importazioni entra in quello complessivo con segno negativo, ecco che il contributo del primo alla crescita del secondo diventa positivo. Cioè, prezzi alle importazioni in calo contribuiscono a innalzare il deflatore del Pil e di conseguenza il Pil nominale.

Se non siete stati colti da vertigini, il punto di sintesi è questo: non è vero che la riduzione del tasso di inflazione al consumo causerà una minore crescita del Pil nominale, facendo gonfiare il rapporto debito-Pil. Potrebbe accadere l’opposto, nel caso di forte disinflazione importata, ad esempio sui prezzi dell’energia.

Vedremo nei prossimi mesi come si svilupperà questa dinamica. Resta che, in caso di ulteriore rallentamento congiunturale, magari spinto dalla crisi tedesca che si abbatte su parte della nostra manifattura, il rischio di avere aumenti di deficit e indebitamento è del tutto possibile. Ma quello che mi preme segnalare è che non è possibile inferire da una frenata dell’indice dei prezzi al consumo che il nostro Pil nominale subirà un ulteriore rallentamento.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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